Come si riscontra nei due racconti seguenti l’origine del ruolo di salariato va ricercata sempre in una famiglia contadina, magari da alcune generazioni con salariati figli di salariati, ma l’origine era indiscutibilmente quella. Rarissimi invece erano i fenomeni inversi, ossia di salariati che rientravano nella mezzadria come, ad esempio, la famiglia Nencioni nell’Ottocento.
Seguiamo ora due storie di due secoli diversi che ci presentano aspetti interessanti della precaria condizione del salariato e scorrendo un inventario ci possiamo render conto quanta poca roba disponevano per il loro quotidiano vivere.
Storia di una famiglia di salariati dell'Ottocento
E' un racconto ben documentato che è di esempio delle difficili condizioni di vita di una piccola e sfortunata famiglia colpita da lutto e dalla malattia, in tempi dove non esistevano ancora forme di assistenza sociale pubblica, ma soltanto interventi caritatevoli di privati o enti religiosi e dell’ospedalità gratuita per i poveri.
E' un po' la storia di tanti piccoli nuclei di salariati in quegli anni di primo Ottocento segnati da reali difficoltà economiche causate dalla guerra, dalle malattie, dalle carestie, superate solo, come nel nostro caso, con l’aiuto di un benefattore, ma diverse famiglie operaie scomparvero travolte dagli eventi negativi della vita.
Giovanni Cristofani nacque contadino, e aveva più di quarant'anni quando lasciò la famiglia al podere delle Muriccie di Basciano per entrare pigionale alla casa detta La Fornace del cav. Sansedoni. Anni dopo, alla Pasqua del 1818, la sua famiglia di pigionale si componeva di 3 persone. Con il vecchio Giovanni di 66 anni circa,
"quasi cieco", vivevano la moglie sessantenne Assunta Palazzi del fu Lorenzo, e il figlio Giuseppe di tredici anni, nato il 15 febbraio 1805. Abitavano ancora alla Fornace e le loro condizioni erano davvero misere.
Il figlio maggiore, Lorenzo, avuto nel 1793, colui che doveva garantire il sostentamento alla famiglia era stato arruolato dai francesi nel 1811 e aveva partecipato alla campagna di Russia, ma non era più tornato, così la famiglia era precipitata nella disperazione e nel dolore. Dopo la sua partenza, la figlia maggiore Angela, donna già matura di 28 anni che non si era maritata, era stata costretta a partire, si può dire dalla fame, ed ora era fuori casa da sei anni avendo trovato servizio a Buonconvento presso Francesco Bellugi. La sorella minore, Vittoria di 13 anni, era entrata in una famiglia di Quercegrossa a servizio, e di seguito come fantina a Corpo Santo dal signor Andreini. Poi, all'età di 18 anni aveva raggiunto la sorella a Buonconvento per servire in casa della vedova Belli. Le due donne riuscivano col loro lavoro a sopravvivere.
Erano stati tempi duri quelli di Basciano per i Cristofani col padre sempre più invalido, impossibilitato a lavorare, cosicchè la famiglia stentava nel procurarsi il cibo quotidiano.
Il tredicenne Giuseppe e la madre sopravvivevano con qualche opra nei poderi dei dintorni, ma non sempre si trovava lavoro.
Un giorno d'agosto le condizioni di Giovanni, cieco e malato, peggiorarono. Non sapendo che fargli fu presa, probabilmente dal fattore del Sansedoni, la decisione di portarlo all'ospedale di Siena dove venne ricoverato il 18 dello stesso mese.
La casa detta Fornace, ormai troppo grande per loro, la sgombrarono e trovarono alloggio in una stanza alla Staggiuola, sempre del Cav. Sansedoni, più che sufficiente per due persone. Ma, mentre si aspettavano la fine di Giovanni, confinato nel suo lettuccio d'ospedale, venne quella di mamma Assunta, anche lei inferma a letto da un po' di tempo, e il 4 ottobre 1820 in età di 63 anni "rese l'anima nelle braccia del suo Salvatore" stroncata dalla malattia. Il parroco Fanciulli gli amministrò i sacramenti e la benedizione, e alle 9 di sera morì lasciando il 15enne Giuseppe solo come un cane. Poi, non passerà un mese e anche Giovanni, il 22 ottobre, dopo due mesi di degenza, esalò l'ultimo respiro. Ma fortunatamente il giovane Giuseppe non rimase orfano abbandonato, perchè gli tese una mano il ricordato fattore che non esitò ad aiutarlo prendendolo in casa alla fattoria e dargli lavoro.
Ben poche cose furono inventariate di questa sventurata e povera famiglia, ma erano le cose della povertà di quegli anni difficili per tutti. Il giorno successivo alla morte di Giovanni all'ospedale, il giovane 27enne fattore Antonio Bernini si recò alla Staggiola e fece presto a inventariare quello che c'era "per conto e interesse del pupillo Giuseppe Cristofani e delle due sorelle". Poi prese Giuseppe e lo portò a casa sua.
Inventario dei beni della famiglia Cristofani:
Un letto di legname bianco con saccone e coltrice Lire 8
Due lenzuoli di rozza lana Lire 4
Due coperte di cenci Lire 3
Un paiolo di rame Lire 12.6.8
Un calderotto di rame Lire 4
Una conca da bucato Lire 6
Due Vanghe Lire 4.6.5
Uno zappone Lire 1.13.4
Una zappa Lire 1
Una catena di ferro nel camino Lire -.13.4
Una padella di ferro Lire 2
Una paletta di ferro da fuoco Lire -.10
Un bidente Lire 2
Una pinnata Lire 1.13.4
Una cassa con serratura Lire 3.6.8
Una madia Lire 1.16.8
Una tavola Lire 1
Una brocca di Rame Lire 3.6.8
Un anello Lire 1.13.4
Totale valore 63 lire, 2 soldi e 3 denari.
Mancano dall'inventario articoli importanti di uso giornaliero, come ad esempio l'attrezzatura minore della cucina fatta di piatti, mestoli, cucchiai, e le stesse seggiole, che essendo probabilmente in legno assai uso non erano ritenute di valore.
Due, tre anni rimase col fattore, dopodichè Giuseppe entrò dai Bruttini alla
"Casa ad uso pigione della Fornace", dove
"abita una stanza", in quel luogo della sua fanciullezza, ma ormai era un uomo di 20 anni. Delle due sorelle vedeva forse Vittoria, ora a servizio in una famiglia nella parrocchia di S. Giovanni in Siena. Poi sparisce ogni traccia di Giuseppe a Basciano. Forse se ne andò a Siena a servizio, o garzone da un artigiano o salariato in qualche lontana fattoria. Chissà? Si può anche pensare che un bel giorno, presa la sua poca roba, si sia ammogliato da qualche parte e abbia dato vita a una famiglia, dimenticando le tribolazioni e ritrovando la serenità.
Storia di una famiglia di salariati del Novecento
Il secondo esempio ci viene da una famiglia di salariati del Novecento, i Rossi di Quercegrossa, la famiglia della mi’ mamma. Essa presentava una grossa anomalia perchè rispetto alla media di 3/4 persone per nucleo familiare operaio, i Rossi arriveranno a contare dieci elementi; una condizione questa apportatrice di conseguenze negative per l’economia familiare, ma per questo di notevole rilevanza per un’osservazione del suo essere nel sociale. Fatta questa debita premessa ci chiediamo allora come vivevano i Rossi in quel tempo che dal primo Novecento giunge agli anni ‘60, l'epoca dei grandi cambiamenti? Come si muovevano i suoi componenti in un contesto scarso di risorse e di lavoro? A queste domande risponde in parte il testo dedicatogli al capitolo Famiglie, ma qui integrato a arricchito da una narrazione più ampia comprendente documenti attinenti ai salariati, comprese le ricevute di fattoria di Egisto Rossi che portò per anni nel suo portafogli.
Il modello familiare preso in esame vede protagonisti il babbo Egisto (1875) e la molto più giovane moglie Ersilia Rodani (1892), i quali, partendo da una situazione di totale povertà, s’arrangiano per far quadrare il bilancio e crescere la sempre più numerosa prole composta da Mario (figlio della prima moglie Maria Civai), Guido, Gina, Gino, Maria, Nello, Piero e Piera, e tutti entrano nel popolo di Quercegrossa nel 1931 andando ad abitare nel Palazzaccio, pigionali dei Mori, là dove era la vecchia scuola. Entriamo in casa Rossi appena trasferita a Quercegrossa e troviamo una famiglia, come si dice, unita, solidale, dove ogni componente e senza eccezioni si fa e si farà carico del proprio fardello fin dalla giovane età, e sapranno poi affrontare la dura realtà dell'esistenza con tenacia e perseveranza. E' una famiglia che eserciterà le rammentate attività del salariato dispiegando tutte le sue braccia. Inoltre, una famiglia che, oltre alle privazioni quotidiane, conosce l'emigrazione e il distacco dalla casa paterna, e subisce la perdita della colonna portante, cioè mamma Ersilia, morta troppo presto, nel 1940, all'età di 48 anni, quando ancora c'era bisogno di lei. Da allora il povero Egisto continuerà ad alleviare le sue pene in qualche bicchiere di vino fino alla sua dipartita sette anni più tardi. Poi, dopo la morte dei genitori, la famiglia si sfalderà progressivamente come un ramo che perde una foglia ad ogni alito di vento, come natura comanda, e ognuno prenderà la sua strada rimanendo però quasi tutti, fratelli e sorelle, nell'ambito del paese. Tutti si sistemeranno e avranno una propria famiglia.
Apparentemente niente di eccezionale, molte famiglie hanno vissuto vicende simili, ma siamo di fronte a una situazione estrema, vissuta però con naturalezza e dignità alla quale non mancarono momenti di gioia e di dolore, di lavoro e divertimento, come tutte le altre famiglie, soltanto inseriti in un contesto familiare di condizioni economiche precarie. Se oggi, parliamo con i sopravvissuti delle loro vicissitudini, lo facciamo con interesse e meraviglia; loro stessi sono ancora increduli per un’esperienza di vita tanto diversa dall’attuale e in cuor loro sono consapevoli di aver vissuto qualcosa di straordinario; una favola speciale e irripetibile, meritevole di essere raccontata in tutte le sue sfaccettature. Gina, Maria, Nello, Piero e Piera sono oggi i superstiti di quel mondo duro e semplice, affrontato cristianamente con pazienza e tanta forza d'animo: una dimensione esistenziale accettata con rassegnazione e facente parte di un mistero troppo grande per essere compreso.
Le lunghe giornate di tante ore di lavoro e sudore venivano allietati dalla partita serale alla bottega e dai dì di festa col gioco, il ballo, il riposo e un pranzo decente. Erano svaghi apprezzati e vissuti in pieno con la serenità e l'allegria di chi se li suda. Forse in questo calmo e affaccendato vivere un unico grande timore: non la preoccupazione del lavoro, non la povertà, ma la malattia. Quando la forza lavoro è costituita dalle braccia che danno il pane quotidiano, una malattia annienta, rovina una famiglia, la priva delle già modesti risorse e rende un peso inutile l’ammalato alle prese col dolore fisico, a volte straziante, per niente lenito dalla medicina di allora. Si, questa forse era l'unica paura che traspare dalle memorie.
Nato contadino nella parrocchia di Lornano, Egisto Rossi, classe 1875, in età adulta si separa dai suoi quando prende la seconda moglie nel 1911. E' in età di 36 anni quando compie il fatidico passo di lasciare la propria famiglia, la mezzadria e iniziare insieme alla moglie un lungo e tribolato percorso da salariato.
Una scelta di vita
Cosa avrà spinto questo trentaseienne a intraprendere la nuova strada non lo sapremo mai. Forse è stanco di piegare la schiena per un lavoro che appena gli dà il mangiare quotidiano, sempre senza un centesimo in tasca. Forse non ama quel lavoro vincolato al ritmo delle stagioni, o forse ambisce semplicemente e legittimamente diventare autonomo, libero di scegliere e di lavorare dove e quando vuole, o forse gli si presenta l’opportunità di prendere servizio fisso alla fattoria di Pomona. Comunque, quali siano state le cause della sua, se vogliamo coraggiosa scelta, condurrà un’intera esistenza dimessa e chissà se avrà mai rimpianto il vecchio lavoro di mezzadro.
Quando nasce Mario nel 1907 e perde la prima moglie Maria, Egisto vive in famiglia dove la cognata Amabile accudisce il bambino. Tornano alle Gallozzole e incomincia a guardarsi intorno alla ricerca di una nuova compagna. che troverà presto nella giovane Ersilia Rodani di 18 anni. Certamente un pranzo nuziale a Tolena in casa Rodani con i parenti Rossi e poi gli sposi rientrano alle Gallozzole, nella nuova casa a pigione.
“La prima sera”, ricordava Ersilia ai suoi ragazzi
"si mangiò sopra una cesta rovesciata, con un tovagliolo sopra; non s'aveva niente". Non avevano nè mobili nè altro. Intanto, a far compagnia a Mario di cinque anni, arriva Guido (1912), che nasce alle Gallozzole e sarà il primo di Ersilia. Ma Mario sarà sempre considerato il maggiore a pieno titolo. Ersilia l'accetterà come suo senza nessuna difficoltà e lui la chiamerà affettuosamente "zia". Egisto, con i due figli e la moglie, cambia residenza e lo troviamo due anni più tardi, nel 1914, casiere tuttofare a Riccieri, alla fattoria di Pomona sotto il Dr. Raspi. Non è un lavoraccio e si tira avanti. Il padrone un giorno lo chiama per andare a Siena. Egisto guida il calesse. Arrivati a destinazione il dr. Raspi dice: "Allora Rossi, ci si rivede qui, all'una". "Va bene dottore", immagino abbia risposto Egisto che puntuale, all'ora stabilita, si presenta all'appuntamento. Passano le una, le due, le due e mezza, niente, le tre, non vede nessuno; del dottore nemmeno l'ombra. Questo pover'uomo non sa che pesci pigliare. Si decide, e ritorna da solo a Riccieri preoccupato per qualche oscura disgrazia. Se ne accorgerà la sera, sul tardi, quando il dottore di ritorno con un mezzo di fortuna, infuriato e vendicativo, lo chiama e gli dice soltanto:
"Rossi, piglia la tua roba e parti. Vattene!". Aveva premunito una disgrazia, ma era la sua. Il Padrone, in questo e in altri casi simili, manifesta tutto il suo potere e la sua durezza di cuore: non esita un istante a mettere sulla strada una famiglia. Ma Egisto non fa una parola, non si scoraggia (fossero quelli i mali) e trova a San Fedele, sotto Vagliagli, come camporaiolo del prete, dopo aver passato probabilmente qualche giorno in casa dei genitori trasferiti al Poggiolo. Con Ersilia lavorano il poderino parrocchiale, servono la messa e trovano il tempo di accrescere la famiglia mettendo al mondo Gina; siamo nel 1916. A San Fedele, però, rimane ben poco. Guarda in alto e passa al Palagio fino al 4 luglio 1918, per poi rientrare a Pomona. Il vecchio dr. Raspi, forse pentito per il suo agire, gli concede una casa a pigione. La prima volta abitava nella zona sud della fattoria, alla fine del marciapiede, al ritorno è alloggiato nell'abitazione a nord. A Pomona nascono altri due fratellini: Gino nel 1919 e Maria nel 1922, là in quella ultima cameretta che si affaccia sulla strada statale verso Castellina.
Al Mulino di Quercegrossa
Passano sei anni scarsi e tutta la famiglia si mette nuovamente in movimento per trasferirsi al Molino di Quercegrossa. E' sempre vivo il ricordo di quel giorno:
"Di maggio del 1924 si venne giù da Riccieri. La mamma aveva una pancia così e portava il catenaccio e il calderotto. Maria era attaccata alle sue sottane e io tenevo una granatina, per aiutare, dietro al carro carico di masserizie; e si torna al Mulino. Il Rustioni e il Furino coi carri ci portarono la roba".Un dipinto di quattro righe, esprimente immagini suggestive, che evoca nostalgiche emozioni. Autore: Gina Rossi. La nuova abitazione è quella a destra con le scalette davanti alla parata dei bovi. Abitano accanto al vecchio mugnaio Angiolino Masti. La pancia di Ersilia
"era grande così" perché aspettava l'arrivo di Nello che nascerà il 4 ottobre, per S. Francesco.
Quest'ultima migrazione è avvenuta sotto la sollecitazione di un uomo, il fattore Pietro Tacconi, che amministra diversi poderi tra i quali quelli di Festa. Erano in stretta amicizia le due famiglie, vivendo entrambe a Pomona, e il fattore lo dimostrerà generosamente negli anni a venire procurando a Egisto del lavoro, sia al Mulino che a Macialla, e anche alla villa di Montarioso, anch’essa proprietà Festa. Inoltre, lo farà tornare al Mulino di Quercegrossa, in quella casa davanti alla parata dei bovi. Il quegli stessi giorni anche i Tacconi lasceranno Pomona per la loro nuova abitazione acquistata in Quercegrossa. I Rossi cercarono di sdebitarsi in qualsiasi modo con questo riconosciuto benefattore, e lo fecero anche durante la guerra in un rapporto di reciproca fiducia:
“I Tacconi ci avevano lasciato tutti i vestiti di casa, compresi quelli del Paolini, ed erano sfollati. Furono nascosti in un ambiente sotterraneo, passato il rifugio del Dorcio, ma dopo il primo bombardamento si ripresero e si portarono tutti in casa dove non subirono danni, e dopo il fronte li restituimmo”.
Con la nascita di Nello, Egisto può dirsi soddisfatto della sua famiglia: quattro maschi e due femmine; e tutti godono di ottima salute. Il 4 ottobre 1924, questo babbo ha 49 anni, ma se qualcuno pensa che abbia tirato i remi in barca si sbaglia, la sua vitalità si manifesterà ancora due volte; non dobbiamo dimenticare che Ersilia ha compiuto 32 anni ed è in salute. Proseguendo con intervalli, da sembrare programmati, devono ancora arrivare Piero nel 1927 e Piera nel 1930, quando lui avrà 55 anni, un’età che a quel tempo cominciava divenire vecchiaia. Il loro cammino è stato di una regolarità impressionante: il primo nel 1912, poi 1914 (Pasqualino, morto), 1916, 1919, 1922, 1924, 1927 e 1930. Tutta gente sana e robusta che camperà a lungo.
L'età della seconda Tolena e del Molino - Scene di vita
L'età della seconda Tolena e del Molino fu contrassegnata da una grande difficoltà: si lavorava tanto e si mangiava poco e le bocche da sfamare diventavano sempre più numerose a fameliche. Questa fame è descritta in un patetico, semplice componimento di Nello, composto in età scolare. Non gli sfuggirà la passione della mamma:
Nel 1930
Ricorrendo la festa del patrono della Parrocchia
Il campanile di Quercia tutte le colline dominava.
Mio padre si chiamava Egisto, faceva l'operaio
la mia madre si chiamava Ersilia, faceva la casalinga
però andava in giro da questi contadini a lavoro
chi gli dava un po' di ceci chi un po' di fagioli
perché doveva rallevà otto figlioli.
A dieci anni pe' falla più bella
andai a guardar le pecore alla Sugarella
e a dodici anni pe' falla fenita
andai a fare il fabbro alla Ripa.
Povera, povera casa mia
davvero aspra la vita mia
ma la mia mamma così tormentata da cento triboli.
Il pranzo era fatto minestra di fagioli
e fagioli ogni giorno
per cena i radicchi servatici
che la mia mamma andava a cercarli in giro pe' campi
bolliti o conditi con qualche avaro sgocciolio di olio
deliziosi del resto, ma spesso si restava con l'appetito.
Commovente! Si legge, in questo spontaneo e delizioso componimento, l'amarezza di chi ha visto le pene di una madre in affanno per i propri figli, e che patisce le difficoltà della famiglia. Non c'è stato bisogno della penna di un poeta per descrivere la sofferenza: è bastato viverla. Eccezionale ironia nell'accenno alla cena. A qualcuno oggi sembrerà tedioso rimarcare a ogni piè sospinto le ristrettezze del tempo, ma non si inventa niente ed erano situazioni tipiche e diffuse tra operai e contadini. Da qualsiasi lato la si osservi quella società, la povertà di costume ti si mostra innanzi, e guida e condiziona ogni commento sopra a quei tempi.
Egisto, chiamato da tutti "Palle" è in età di 43 anni. E' un uomo maturo, ma non trapassato, e lavora duro sostenuto anche dal fisico robusto che lo asseconderà fino all'ultimo:
"I primi tempi faceva l'uomo di fattoria poi iniziò a lavorare anche alla fornace di Giotto; cavava la terra". Lo segue nel lavoro anche Mario, ormai sedicenne, e ben presto anche il giovanissimo Guido. Alle Fornaci, poste dietro Pomona, detta anche Riccieri, dalla famiglia proprietaria nell'Ottocento, lavora Guido, un ragazzino di 12/13 anni. La fornace non perdona e lui pagherà un caro prezzo per quel lavoro di fornaciaio, difficile per le condizioni ambientali per un uomo adulto figuriamoci per un ragazzo di dodici anni:
"Lo zio Guido quando andava dalle fornaci gli presero i dolori alle mani e alle gambe. Si camminava a piedi perché non si poteva comprare la bicicletta. La sera faceva le scale del mulino con le mani a gatto dal dolore; quanto ha patito".
Fattoria e fornace, ma Egisto, inoltre, fa di tutto e di più per garantirsi sempre una piena occupazione. Qualsiasi lavoro va bene.
Tutti i lavori stagionali offrivano la possibilità di ricavare provviste in natura, come in estate in tempo di segatura:
"Il babbo prendeva un campo da segare a Gardina e con Mario, io e Guido si segava tutto a mano, si legava e si facevano le mucchie, col caldo senza meriggio". Gina è una bambina poco più che decenne, è spossata dal caldo, il sole cocente leva le forze e annebbia la vista:
"Oh babbo mi fa caldo posso andare sotto quegli alberi?", chiede.
"No, no, aspetta, tanto s'è finito", e non finiva mai. Ma qualche chilo di farina era assicurato.
Da Tolena o dal Mulino Egisto raggiungeva Montarioso, chiamato dal fattore per qualche lavoro occasionale e per la vendemmia. Viaggiava con Mario, a piedi, andata e ritorno, perché la bicicletta era un lusso che non si potevano permettere e poi Egisto non ci sapeva andare e non imparò mai. Viaggiava con la sporta di stiancia per il mangiare, e l'immancabile boccia del vino.
Solo dopo alcuni anni a Quercegrossa i fratelli Rossi arriveranno a possedere fino a quattro biciclette che posteggeranno in casa, appoggiate a una parete della sala.
A Quercegrossa
Il trasloco dal Molino a Quercegrossa, avvenuto nell'ottobre 1931, non fu determinato da sostanziali cambiamenti, ma esclusivamente dalla necessità, divenuta pressante, di disporre finalmente di un'abitazione adeguata alla famiglia. Con la nascita di Piera erano in dieci a rigirarsi in tre piccole camere, un angolo di salottino e la cucina. Deve esser stata una liberazione per tutti la nuova casa con tre grandi camere, un'ampia cucina con un bel focolare, una sala notevole per dimensione dove tante volte fino agli anni sessanta i Rossi si raduneranno al completo, con i nipoti, per ritrovarsi in allegria intorno alla tavola imbandita.
Il gabinetto, preceduto da un piccolo ambiente che serviva per dispensa, aveva sul suo soffitto un soppalco utilizzato per conservarvi frutta secca, riporvi arnesi vari ecc. Era l'appartamento del Palazzaccio abitato fino al 1927 dal fattore Egisto Bucci e della moglie Norina, con la stanza che dava sulla strada adibita ad aula scolastica fino al 1928. Il nonno Egisto parlò con i Mori e si fece il contratto. L'affitto fissato in 90 lire mensili fu mantenuto per tanti anni:
"Non ce l'aumentarono mai".
Il primo decennio, in paese, trascorse senza grossi scossoni. Si ebbero nel 1936/37 le prime occupazioni per Gino, Gina e Nello, senza tuttavia incidere troppo sul bilancio familiare, mentre Piero viveva alla Sugarella come garzone. La famiglia stenta a provvedersi un'alimentazione adeguata che spesso è insufficiente e magra:
"La sera si mangiava pappa o minestra di fagioli e di ceci. Per secondo un tegame di patate o cipolle o zucca che ci davano i contadini, a volte anche gratis, come il Losi, anche senza lavorare". Tutto diveniva commestibile:
“A cena anche frittata di vitalbini e fiori di cascia”. Nove/dieci persone sono tante e la solidarietà delle famiglie vicine si manifestava in mille modi. Non era carità spicciola, era fraternità. Chi la praticava attraverso un tegame di minestra, chi con l'affitto basso oppure con un conigliolo in più per qualche opra. Solo le domeniche e le feste comandate, d'altronde come tutti gli operai del tempo che più o meno navigavano nelle stesse condizioni, solo in quei giorni si mangiava carne. Un pezzo di lesso, acquistato al macello Cellesi al Braccio o dallo Stiaccini, oppure pollo o conigliolo e il tutto preceduto da una pastasciutta al sugo: la festa si viveva. Un pezzetto di rigatino o buristo, quando c'erano, generalmente servivano per gli uomini che lavoravano fuori; preparati la mattina e messi nel tascapane per il pranzo. Poco prima o subito dopo il passaggio della guerra, ottennero dal Losi l'uso di un piccolo castro dove ingrassavano un maialetto che al tempo opportuno forniva loro un po' di riserva di carne. La sera a cena, oltre a quanto sopra ricordato, potevano mangiare saltuariamente una frittata di cipolle o d'erbe, a volte qualche sardina o acciuga o un'aringa il venerdì, quando andava bene. Non era facile dividere in nove o dieci persone e sottolineo come fondamentale questo dato. Il pane, senza spreco, perché poteva anche mancare:
"Quando preparavo il mangiare la mattina che partivano e non avevo pane gli davo le castagne bollite". La mattina presto, alla partenza, una tazza di orzo inzuppato. La moneta, già scarsamente circolante in un paese di operai e contadini, in casa Rossi si limitava a qualche lira. Quel poco denaro guadagnato se ne andava per le cose essenziali: la bottega e il macellaio; il merciaio; il calzolaio; il dottore e qualche medicina; poi l'affitto; la luce e, se c'era necessità, per una spesa straordinaria. Infine due soldi per l'osteria: un bicchiere di vino, una partita e un po' di tabacco. Egisto e Mario, gli unici a lavorare nelle fattorie, si approvvigionavano dei prodotti essenziali come grano, olio, vino, uova e verdure. Per questo, a fine mese, detratto il valore dei prodotti ricevuti, ci rimaneva poco e spesso solo il debito. Quando era possibile, come per il rifornimento di legna, ci si arrangiava nei boschi e nei campi andando a raccogliere, previo permesso dei padroni, scappiole, rami e viticci per il fuoco e fastella per il forno. Una cosa è certa: i soldi non c'erano mai. Basti questo esempio: quando Gina torna da Napoli, dopo circa sei mesi di servizio, ha in un librettino con delle lire risparmiate. Ebbene, un giorno mamma Ersilia:
"Senti Gina questi uomini non hanno camicie, ci vorrebbero questi soldi". A questo punto la zia Gina, allo struggente ricordo, si mette a piangere
"Non s'aveva niente...". “Anche lo zio Gino quando ritornò dalla prigionia aveva dei soldi (qualche sussidio dello Stato),
ma sparirono subito”. Ancora più efficace il ricordo della zia Piera che pur piccola rammenta assai bene quei giorni:
“Io da parte mia la fame l’ho patita tanta” dice, e aggiunge:
“Durante la guerra, con la tessera, il pane si prendeva dal Brogi, e di solito lo divideva in tante fette quanti erano i componenti della famiglia. Ma accadeva anche che ci dasse un pezzo intero e allora quasi tutto se lo prendevano gli uomini di casa e a me non restava quasi niente. Si aveva la tessera di povertà; s'era la famiglia più povera di Quercegrossa. Prima della guerra, la mattina mi mandavano fuori nella strada con una fetta di pane e un po’ di sale in mano e mi arrangiavo con cipollotti e porri come companatico. Per scaldare il forno s’andava al bosco tutta la famiglia, 8/9 persone a fare fastella e raccattare ramaglie. Le ramaglie erano avanzi del taglio del bosco dove venivano fatte le cataste, che se lasciate in terra infradiciavano. Si riempivano anche ceste di scappiole, ossia le schegge del taglio degli alberi. S’andava alla petraia del Mulinuzzo e lungo i boschi del Mori e del Bindi. Le fastella si portavano a spalla. Si facevano anche con i secconi, cioè rami secchi di quercia, e ci si caricavano sulle spalle. Si portava un pane e un etto di marmellata preso a bottega. Lo zio Mario me la spalmava una coltellata sopra la fetta del pane, ma poi la rigrattava per rimetterla sopra ad altri; mi faceva una rabbia! Tutte le domeniche le mie amiche andavano dal Brogi e mangiavano il gelato artigianale fatto da lui. Io chiedevo i soldi al mi' babbo. "Oh Nini”, mi rispondeva, “Io non te li posso dare perché non ce l 'ho". A volte la domenica cavava il borsello di tasca e a me e alle mie sorelle ci dava un ventino per comprare i fru-fru. Ce n'erano tre: “Pigliatene uno per una perchè non ve lo ridò”. Avanti guerra, la domenica, lo zio Mario mi dava alcune lire dei suoi soldi per comprare la carne dal macellaio di Castellina, lo Stiaccini. Io gliela portavo e lui se la batteva in parte come macinato e la mangiava cruda con un po' d'olio, e la rimanenza per la famiglia. Era così grande la fame che s’andava dal Losi o dal Coccheri e si beveva il siero del formaggio, quando lo facevano, tanto per riempirsi la pancia. Se un giorno c’era l’aringa toccava una strisciolina di due centimetri. L'orzo era solo per gli adulti e vedendolo pigliare alla mi' mamma ci spiravo. Per avere qualche soldo venne data, per un breve periodo, una stanza a Pino e Rita Bonelli e poi a Luce. La stanza fu divisa con dei mobili perchè ci dormivano gli uomini. In casa Rossi s’aveva il buratto e si teneva nello stanzino che dava sul gabinetto”.
Tutto si svolgeva ancora entro obbligati limiti di insufficienti possibilità, e ce ne vorrà del tempo prima di veder modificato questo stato di cose.
Il decennio 30/40 si chiude con il matrimonio di Mario e l'improvvisa quanto inaspettata morte di Ersilia. Ma già il cannone tuonava. Notevoli e sofferti cambiamenti interesseranno in prima persona tutti i figlioli Rossi e vi rimando al primo volume dove ho trattato con dovizia di particolari di ognuno di loro. Nell’immediato dopoguerra la famiglia soffre la situazione generale di grande disagio. A Egisto venne concessa una piccola pensione che riscuoteva personalmente a Monteriggioni dove si recava a piedi accompagnato dalla figlia Piera. Al tempo del fascio, come famiglia povera, il Comune di Monteriggioni gli dava dei pacchi contenenti pezzi di stoffa, zucchero, pasta e li ritiravano a Fontebecci.
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