Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Cose Il Guarducci, ossia il Sensale
Le fiere e i mercati settimanali vedevano il ritrovo di sensali, padroni, fattori e capocci e lì si acquistavano e vendevano capi di bestiame grande e piccolo e molti contadini vi trovavano il nuovo podere. A Siena si svolgeva negli anni tra le due guerre in Camollia davanti alla caserma, mentre un altro punto d'incontro si aveva in Piazza d'Indipendenza detto "il mercato de' capocci" dove si trattava di tutto. Come abbiamo visto c’erano tutte le componenti del mondo agricolo dal padrone al contadino, ma quella che per così dire dirigeva il traffico era quella dei sensali detta anche dei mediatori. Erano loro, infatti, che facevano da intermediari in quasi tutti gli affari di compravendita fra contadini, e di altro ovunque servisse un arbitro esperto, ponendosi quindi in una posizione di figure insostituibili per la loro universale riconosciuta utilità. Naturalmente l’attività del sensale non si limitava alle fiere e ai mercati, ma abbracciava l’intero mondo agricolo e si può dire non avesse limiti nè di orario nè di movimento.
Questa importante categoria professionale non lavora a caso avendo, come tutte le categorie che si rispettino, le sue regole e le sue tariffe. Nel dopoguerra si conoscono quelle della Camera di Commercio di Siena la cui giunta approvava il 7 novembre 1950 le Norme e Tariffe della Mediazione; non solo tariffe, ma una vera e propria etica della professione:
Art. 1 - Nessun diritto spetta al mediatore se non a contrattazione effettivamente avvenuta.
Art. 2 - Nei contratti per atto scritto la mediazione è dovuta solo dopo la sottoscrizione dell’atto da parte dei contraenti.
Art. 3 - Per uno stesso affare, per il quale si prestino due o più mediatori, è dovuta una sola mediazione, che viene divisa fra di essi in parti uguali.
Art. 4 - Il mediatore richiesto o accettato da una sola delle parti in contrasto, ha diritto al premio di mediazione solo dalla parte che lo ha richiesto.
Art. 5 - La Tariffa spetta a tutti i mediatori, salvo pattuazioni speciali, tanto dal compratore quanto dal venditore ed è la seguente:
Cereali e legumi Lire 50 a quintale / Fieno, Paglia, Legna e Carbone = 1% del valore Castagne e Ghianda Lire 50 a quintale / Buoi e vacche = 0,50%, ma abbiamo visto che la tariffa si è fissata in 1000 lire a mediazione / Vitelli L. 350 a capo / Mucche L. 700 / Cavalli da servizio e muli L. 1.000 / Asini L. 500 / Suini grassi L. 200 / Suini magroni L. 150 / Lattoni 1%. Fondi rustici e urbani il 2% dal venditore fino a 2 milioni e l’1% dal compratore ecc.
Il compito maggiore e più difficile da sostenere per un sensale era trovare un accordo sul prezzo per la vendita e, di conseguenza, l'acquisto di un capo di bestiame o di prodotti della terra tra l'acquirente e il venditore. La capacità del sensale si manifestava proprio nel saper mediare tra le due parti e giungere ad un accordo sancito da una energica stretta di mano. La stretta finale arrivava al termine di una contrattazione a tre dove si mescolavano interessi, orgoglio e astuzie. Uno spettacolo allo stato puro al quale io ho avuto la fortuna di assistere con il mediatore Guarducci. Si trattava in definitiva di un rito secolare, ripetuto con gli stessi gesti e le stesse parole e che vissi da spettatore invisibile. Non ricordo il podere, ma non ha importanza. Poteva essere qualunque podere e in qualsiasi epoca: la scena era la stessa. La mediazione si svolse in casa dove già sul tavolo era posto il fiasco e tre bicchieri per suggellare l'inevitabile accordo. "Si beve dopo", ammonì il capoccio in tono di sfida, rivolto al sensale al contadino acquirente, mentre le donne si erano silenziosamente addossate alle pareti, in attesa di un comando. Il Guarducci avvolse le vite dei due capocci e li spinse alla porta. La preliminare visita alla stalla era obbligatoria per vedere, tastare e valutare il vitello in vendita. Al rientro in casa già si discuteva sul prezzo, che alla fine era quel che contava. Fu come un incontro di pugilato con i due contendenti a menare colpi a suon di cifre e argomenti sul peso, sulla salute, sulla necessità dell'affare e tante altre cose dette; si lodavano i pregi e si rimarcavano difetti. Nel mezzo il Guarducci, il quale, rivolto ora a quello ora all'altro, suggeriva cifre e tentava di far accostare i due contendenti prendendo le loro mani e unirle per il patto, ma sempre una delle due scivolava via e si giustificava così: "No, no, un' posso, ci rimetto". Dopo cinque interminabili minuti di duello verbale, sull'ultimo prezzo le due mani, afferrate saldamente da quelle del sensale, si strinsero a concludere l'affare. La parola data valeva più di mille firme. Era tanta la foga del sensale nello scuotere le mani dei due contadini che una volta a un certo Giuntino, con una strattonata più violenta, si dice sia stata slogata una spalla. Il capoccio, a quel punto, rilassato come gli altri contendenti e soddisfatto per l'affare concluso, prendeva il fiasco per il collo dissetava i suoi ospiti, mentre il discorso cadeva su altri argomenti. Avevano vinto tutti e potevano berci sopra compreso il Guarducci che guadagnava la sua mediazione.
Deve essere stato il babbo Giovanni Guarducci, detto "Nanni", a intraprendere la carriera di sensale mentre coltivava il podere ancor prima di tornare a Petroio, e in questo esempio il giovane Dino deve aver visto la possibilità di elevarsi dalla sua condizione di contadino. Molti dei sensali, infatti, provenivano da famiglie contadine e del piccolo commercio. C'era anche chi praticava la mediazione, quando richiesto, "senza tariffa, ma per piacere a tutti", e si ricordano tra questi Cesare Losi, Armido Taddei e i Masti del Mulino. Necessitando il mestiere di un minimo di istruzione specifica, Dino si iscrisse ai corsi serali a Fonterutoli e il 30 marzo 1936 ricevette la Licenza del corso complementare a tipo agrario. Un anno di grossi sacrifici, con il podere da lavorare e la partenza per Fonterutoli verso le otto della sera e ritorno a mezzanotte. Ma così facendo si presentò sulla piazza a pieno titolo. Poi, alla fine del 1937, la scelta definitiva di abbandonare i campi e dedicarsi a tempo pieno alla professione, tornando nel quartiere Mori di Quercegrossa, quello di recente costruzione sopra il forno, sulla strada principale. L'acquisto di un cavallo e calesse, con l'affitto anche di una stalla sotto casa, offrì loro la possibilità di allargare il giro e incrementare gli affari. Col calesse Giovanni o Dino portavano quattro persone, due davanti e due girate di dietro. Dopo la guerra Dino acquistò prima una moto col carrozzino, e portava due persone, poi una macchina due anni dopo. Con la macchina andavano anche fuori provincia, in Maremma e in Valdarno. Il cavallo, strigliato giornalmente da Nanni sul selciato del piazzale, venne mantenuto e utilizzato fino al 1954/55. Dino, prima con la moto poi con la macchina, si rese sempre disponibile in paese per aiutare disinteressatamente chi aveva bisogno del dottore o della levatrice di Vagliagli: li andava a prendere e riportare a qualsiasi ora del giorno e della notte continuando quell’opera meritoria compiuta dal babbo Giovanni con cavallo e calesse. In pochi anni Dino divenne una figura di primo piano del mondo mezzadrile grazie al suo infaticabile impegno. La sua giornata iniziava quando era ancor buio e non aveva orario; divenne una leggenda.
Ci sono delle persone che hanno vissuto tanto intensamente la loro professione da divenire essi stessi sinonimo di essa. Tra queste è ricordato universalmente "il Guarducci". Dire Guarducci, sotto qualsiasi latitudine era come dire "il mediatore" e dire mediatore si intese per trent'anni ed a ogni ora "il Guarducci". Il sensale per antonomasia, il mediatore per eccellenza. Senza di lui non si vendeva né si comprava a Quercegrossa e dintorni. Ogni fattoria, ogni contadino, come d'altronde dimostrano i documenti rimasti, si avvaleva della sue capacità ed esperienze professionali, che possedeva ampiamente, e da tutti riconosciute, per svolgere il delicato incarico. Non c'è libretto colonico dove non si riporti: "Spese mediatore Guarducci £ 1.000". Ma oltre alle innumerevoli mediazione condotte a buon fine fu incaricato di stime, di divisioni familiari, di gestione colonica e altre operazioni della categoria compiute tutte con grande competenza. Era presente sul territorio prima della guerra un altro nome: "il Milanesi di Castellina", ma ben presto questi fu ridimensionato dalla prepotente personalità e vitalità di Dino Guarducci. Tutt'oggi sopravvive il ricordo di quest'uomo la cui dedizione al lavoro era almeno pari a quella per la famiglia alla quale dedicò tutte le sue doti umane e morali. Nella stessa misura certe qualità morali erano richieste dalla sua professione; la fiducia innanzitutto, derivata da una fondamentale certezza di onestà del personaggio che avevano i suoi interlocutori, siano stati essi poveri contadini o scaltri fattori.
Costretto a muoversi, specialmente nel dopoguerra, in un ambiente inquinato dalla lotta politica, riuscì a convivere con tutti usando, anche in questo campo, le sue famose arti di mediatore. Evitò, per motivi comprensibili, qualsiasi presa di posizione, cercando di non urtare nessuno. Fu capace, insomma, senza rinunziare alle sue idee che nessuno conosceva, a navigare in un mare che poteva per lui divenire pericoloso; bastava una parola fuori posto e la frittata era fatta. Ma questa parola non fu mai detta. L'aiutò in questo barcamenarsi il suo carattere gioviale e la sua naturale predisposizione al contatto umano. Era normale vederlo a braccetto con un amico o con un potenziale cliente e la meta finale era sempre il bicchiere di vino bevuto in amicizia e brio. Spontaneo e sincero con queste armi affrontò fin da giovane il suo difficile mestiere.
Verso il 1965, in piena crisi mezzadrile, Dino cominciò a svolgere mansioni di amministratore per la fattoria di Petroio, e con un certo orgoglio ritornò da fattore, dove era stato contadino. Ma agli inizi del 1967 si ammalò gravemente. Per non allarmare la famiglia aveva trascurato i numerosi sintomi che il male gli manifestava e quando si ricorse al ricovero ospedaliero il blocco renale era ormai irreversibile. Lui, abituato al quel muoversi quasi frenetico, si fermò e fu costretto immobile sul suo lettino d'ospedale. Ero presente quando affrontò serenamente la sofferta agonia, confortato nell'ultima ora dalla pace dei Sacramenti e dalla presenza commossa delle sue donne. Il sommesso pianto di quest'ultime, nella semioscurità della cameretta, accompagnò il suo ultimo respiro in quella notte di primavera del 10 aprile 1967.
Una partecipazione straordinaria di parenti, amici e conoscenti, provenienti da ogni parte, lo seguì nell'ultimo viaggio alla Misericordia di Siena. Se ne andava insieme a quel mondo del quale era stato interprete generoso e che proprio in quegli anni veniva travolto dalla nuova società che si stava imponendo. Fu l'ultimo grande della sua categoria. Era vissuto 57 anni.

La licenza di Agraria ottenuta da Dino Guarducci.

Le due foto illustrano l’amministrazione del sensale Guarducci negli anni Cinquanta con la registrazione delle mediazioni di compra vendita fatte a lire mille ognuna, indipendentemente dal numero delle bestie trattate, per le quali paga il 3% d’Ige. Nel 1955 vende 130 bestie come risulta dal registro.




Il mugnaio

La fine della mezzadria ha avuto come conseguenza, tra le tante, anche la scomparsa dei mulini ad acqua che numerosi costellavano i fiumi del senese. Il mulino di Quercegrossa, di antica origine, forse fine Quattrocento, subì la stessa sorte cessando ogni attività negli anni Sessanta del Novecento, quando ormai macinava soltanto "per le bestie". Lungo il corso dello Staggia gli facevano compagnia da molto tempo altri impianti, detti anche "molendini", come quello di Cavasonno, a monte, e quello di Staggia che lo seguiva, le cui acque scorrevano verso il mulino delle Badesse. Tutti questi impianti non esistono più, e appena si sono conservate le strutture esterne. Da ricordare che la portata della Staggia era allora abbondante, e solo nell’estate si aveva un po’ di secca, ma nell’inverno si verificavano delle piene che alzavano molto il livello del fiume, come ancora si ricorda: “Una volta a Cavasonno dalle finestre toccavano l'acqua con le mani”.
Nati intorno all'XI secolo i mulini ad acqua vennero a sostituire il lavoro animale e umano nel far girare la macina e rientravano a pieno titolo tra gli impianti essenziali della produzione agricola. Infatti, era lì che cereali e biade venivano resi farine per il consumo alimentare di uomini e animali.
Nel 1317 nella rammentata Tavola delle Possessioni non viene registrato nessun mulino a Quercegrossa, essendo una zona di confine sempre sottoposta a razzie e distruzioni, ma un secolo prima nel 1203 già viene ricordato un mulino sulla Staggia tra Quetole, Sornano e Petroio, non precisando però il luogo, e si può pensare, per tanti motivi, si trovasse verso Cavasonno. Tutti di proprietà delle grandi famiglie di possidenti e monasteri, gli unici dotati di terre e mezzi per costruirli, i mulini erano concessi in affitto a mugnai ricavandone un utile in grano (5 quintali nel 1570 e 8 q nel 1615 per affitto del mulino di Quercia) e fino a non molto tempo fa la macinatura si pagava ancora con una quota di grano. Anche se in tutti i tempi vi sono stati dei mugnai che sono riusciti ad elevarsi economicamente, favoriti dal luogo, dalle circostanze, o dalla loro industriosità, in generale il mugnaio appena ricavava da vivere dal suo lavoro; per questo quasi tutti i mulini avevano annesso un discreto appezzamento di terra che egli stesso coltivava.
Un'altra attività dei mugnai del mulino di Quercegrossa, per arrotondare, era quella di trapelare sulla salita i mezzi in arrivo da Castellina e si hanno notizie perfino di un’osteria al Mulino, a fine Settecento, gestita dal mugnaio e dalla sua famiglia. Da tener presente che nello spazio di pochi chilometri, da Cavasonno alle Badesse, vi erano ben quattro mulini. In alcune parrocchie della Comunità di Castelnuovo nell'anno 1818 alla tassa di famiglia il parroco annota: "I mugnai sono in stato indigente essendo i mulini di proprietà e per uso dei loro padroni". In pratica lavoravano solo per i poderi della fattoria alla quale appartenevano che, anche se numerosi, davano scarso ricavo.
Al mulino di Quercegrossa, l'acqua corrente della Staggia era immessa in un grande serbatoio all'aperto chiamato "gora" che dominava il mulino. Sul letto del fiume, poco prima delle Redi, si trovava la cosiddetta pietraia con una cascatella formante un bacino d’acqua: un grande fontone ripulito una volta all’anno e dove vi lavavano anche le pecore. Appena prima della cascata vi era il “gorino” che portava l’acqua alla gora del Mulino. L'acqua era regolata da una saracinesca in legno, ma il mugnaio la teneva quasi sempre aperta. Il Gorino, alto circa. mezzo metro era tutto a mattoni e murato e il greppo che lo fiancheggiava era agibile al passaggio.
L'acqua scendeva a comando dalla prima gora nella seconda come una cascata, con un rombo sordo. La casa del mugnaio Lando Bonelli, faceva da parete. Anche le finestre del pigionale Rossi davano sull'acqua, ma non c'era un filo di umidità in quelle case vecchie dai muri spessi. Dalla seconda gora, scorreva sotterranea con forza verso il mulino facendo girare il ritrecine posto al disotto delle pesanti macine di pietra. Per mezzo di un ingranaggio, il ritrecine metteva in azione le macine, trasmettendogli il movimento. Le macine, in posizione orizzontale, prendevano a girare intorno all'asse schiacciando chicchi di grano, orzo, granturco, fave e ghiande. Al mulino di Quercegrossa avevano tre macine (due ruote orizzontali di pietra per macina con la superiore rotante e l’altra fissa) ognuna posta sopra un piedistallo di un metro, attaccate in parallelo; due macine a farina e una a biada, avena e orzo. I grani immessi nella tramoggia a forma di piramide rovesciata che sovrastava la macina, erano fatti cadere un po' alla volta al centro della stessa per la macinatura, e poi un sistema di separazione di farina dagli scarti produceva semola e semolino. L'ambiente di lavoro creava polvere e tanto rumore.
Dopo la tribbiatura dei grani iniziava il continuo andirivieni dei contadini e pigionali che si recavano al mulino col carro o con la ciuca, con due o tre sacchi di grano da far macinare. I mulini ad acqua lavoravano piccole quantità alla volta, ma ciò bastava per le famiglie dei dintorni. Ricordo l'ultimo mugnaio Armando dei Masti, imbiancato da capo ai piedi dalla farina, aspettare sulla porta del mulino pronto ad accoglierci. Accanto al mulino vi era una stalla o una grande parata dove i contadini, in attesa della farina, posteggiavano i bovi all'ombra. L'estate era spesso una stagione di crisi idrica e la Staggia non aveva portata sufficiente per riempire la gora e sul suo corso tutti i mulini sospendevano il lavoro. Allora i contadini erano costretti a lunghi viaggi verso altri mulini: "A macinare quando d'estate non c'era acqua al mulino si andava a Colle. Si partiva il giorno alle dodici e si arrivava a buio". Sembra che per sfruttare al massimo le acque quando c'era un po' di secca, si collaborasse tra i vari mugnai: "Quando macinavano a Cavasonno lo mandavano a dire a Lando Bonelli del Mulino, perchè l'acqua chiudendo la pietraia prendeva il gorino e andava nella prima gora. A sua volta Bonello mandava a dire alla Staggia che macinava, dove c'era sempre una pietraia e da lì l'acqua al gorino e al mulino della Staggia".
I mulini, come detto, appartenevano ai grandi proprietari, i quali, generalmente, si rendevano autonomi per la macinatura delle olive con i frantoi, con le fornaci per i mattoni e così con i mulini. Nel 1812 nel solo Comune di Siena ne esistevano 35. Quello di Quercegrossa aveva per proprietari, da secoli, una famiglia senese, i De Vecchi, padroni di tante terre come la Casanuova e Montarioso, le più vicine, e altre nella provincia. Il mulino delle Badesse invece era delle Monache della Madonna dette anche le Trafisse, le quali lo concedevano in affitto insieme a poche terre annesse: una vigna e un campicello.
Proprio dal contratto stipulato col mugnaio Michelangelo Ticci, il futuro oste di Quercegrossa, veniamo a conoscenza delle regole d’affitto e dei materiali che costituivano un mulino nel 1701 con il loro relativo valore in scudi di lire sette l'uno.
“Dagli eredi del precedente mugnaio riceve:
Primo palmento
(macina) della fuocaia cioè due macine fondo e coperchio - scudi 42
Cassini
(assi di legno) coperchio e tramoggia - scudi 3
Ritrecine con tre cerchi di ferro - scudi 5
Ponchina alsatoio e giovetto - scudi 2
Capo maglio stanga e pertica - scudi 2
Peduccio e ralla - scudi 1.3
Palo per far girare la macina
(a mano) - scudi 2
Suo collo in acciaio e nottola - scudi 3
Secondo palmento dell'Alberese con tutti i soprannominati capi stimato in tutto scudi 60.4
Una macina dentro all'uscio del mulino fuori d'opera per stima fanno scudi 6
Il cassone della molenda (farina) per stima scudi 5
Due cappelli di rame alle cannelle per stima scudi 3.3.10
L'importo della stima consegnatoli fanno scudi 135. 3. 10 (lire 945 circa).
E' in oltre consegnatoli a possesso e non a stima cioè:
Un palo di ferro; un bozzolo di ferro
(un grosso recipiente con manico); una stadera di portata once 460 (12 kg circa); un cerchio di ferro di once 42 (1 kg circa): un pestio nel granaro di casa e due toppe con due pesti”.
Il Ticci si impegna a pagare per il fitto del mulino moggia sei di grano ( circa 31 quintali), a prendere a stima "le macine, ritrecine e tutte l'altre massarizie del molino e di casa e quelle sia obbligato a renderle nel fine dell'affitto", "a macinare gratis tutto il grano per vitto del monastero senza pretendere bozzolatura alcuna". Si obbliga inoltre "a rimandare due volte l'anno la colta del molino e gore e non facendolo sia lecito alle Rev. Monache farle rimandare loro a spese di esso mugnaio". Nel caso che il Ticci voglia lasciare dovrà farlo entro “Ogni Santi” come è consueto. Altri patti riguardavano l'affitto delle terre. Il 15 giugno 1721 il mulino passa a Michelangiolo Bartolini già mugnaio a Cavasonno.
Dal mulino del Ticci alle Badesse la tecnologia non cambia molto e bisogna arrivare al secondo dopoguerra per vedere in azione i mulini elettrici o entrambi: “Il Masti aveva un mulino ad acqua e uno elettrico e un Buratto”. Si rammenta il tentativo un po’ empirico fatto da Pino Nicolic, il marito di Rita Bonelli. Egli prese il motore a vapore dei Mori e, dopo aver praticato un grosso buco nel muro del mulino, lo collegò alle macine con un cignone da tribbiatura, facendole girare. Lo stesso accorgimento sembra sia stato sperimentato anche al Castellare con un mulino Niagara fatto girare dal vapore dei Mori, e da quanto vibrava dovettero murarlo in terra. Ma a parte questi tentativi senza seguito, si ebbe il primo motore elettrico con i Masti che acquistarono anch’essi un modello costruito dalla Tortorelli di Siena: il Niagara. Era stato realizzato ingegnosamente dall’industria senese e consisteva in una turbina che azionava dei martelletti che compivano l’opera di molinatura facendo fuoriuscire la farina da bocchette laterali. I vari tipi di vagli permettevano di graduare la finezza delle farine. “Grani più grossolani per le bestie oppure vagli più fini”. Una grande invenzione ma, come ricordava Duilia Losi moglie di Lando Bonelli “C'era il niagara che faceva un rumore, mi sono mezza assordita”.


Il norcino

All'ammazzatura del maiale e alla sua lavorazione ci trovavi il cosiddetto "norcino". Esso poteva essere il bottegaio di Quercia, ossia Dante Brogi, o un contadino del vicino podere. Norcino, come si sa, è un termine oroginario dal paese di Norcia, terra specializzata per i maiali. Ma la parola norcino non era usata nelle campagne di Quercegrossa; allora come si chiamava quello che ammazzava i maiali. Forse “l’Ammazzino”. Il fatto è che probabilmente non esiste da noi un vocabolo per indicare quella professione. Genericamente si dichiarava il nome dell'uomo che lo lavorava "Viene il Brogi" oppure "Viene Tizio" o "Chi te lo lavora il maiale?".
Essendo un'attività specifica stagionale vi erano figure professionali all’opera da settembre a gennaio, ossia per l'epoca in cui si ammazzavano i maiali nei poderi e presso i privati. Accanto alle figure più rinomate, c'erano tanti altri lavoranti, specialmente contadini un po' specializzati, chiamati nei poderi anche solo per ammazzare il maiale. Ma su tutti, per oltre un trentennio, nella lavorazione dei maiali prevalse Dante Brogi, il bottegaio di Quercia. Si era impratichito fin dai primi tempi della bottega e poi attrezzato di tutto punto e lavorava da solo; soltanto negli ultimi anni si prese un aiutante, un certo Foffo della Casa. Quando non poteva mandava altri, come uno della Staggia della famiglia Brogi. Avanti giorno, verso le cinque della mattina, o anche prima, arrivava con due sporte piene di coltelli e macchinette da salami e salciccioli. Dante faceva tutta la stagione e un anno lavorò più di cento maiali. Per la bottega ammazzava dietro casa non avendo macello, e dopo di lui Bruno Landi si ammazzava da sè i maiali nel macello posto nell’edificio costruito da Giotto Fontana.
Il giovedì mattina trovava noi ragazzi di Quercegrossa in trepida attesa, fin dalle nove, per un appuntamento settimanale ripetuto per buona parte dei mesi invernali: l'ammazzatura del maiale fatta dal bottegaio, e nel nostro caso da Bruno Landi. L'arrivo del camioncino con sopra la gabbia e dentro il grosso maiale, che ogni tanto grugniva minaccioso ai nostri dispetti, dava il via al nostro divertimento. A metà mattinata si vedeva Bruno portare coltelli e lunghe coltelle nella stanza che serviva da mattatoio, e lì prendere le funi occorrenti per legare gambe e muso del maiale. Questo era il segnale che si stava per incominciare. Con l'aiuto di alcuni uomini, la gabbia era scesa dal mezzo e si procedeva legando con una lunga fune una gamba posteriore dell'animale. Un'altra fune gli era legata al muso nella mascella superiore ed entrambe erano tenute da uomini. Quando il maiale arrivava la sera precedente, era “posteggiato” negli stalletti del Losi, e qui la sua cattura era più problematica specialmente per mettergli la corda al muso, e tanti erano i tentativi fatti. Una volta un norcino si avvicinò troppo alla bocca dell'animale, ormai infuriato, e un morso gli straziò la mano. Trasportato subito all'ospedale, fu chiamato un contadino del Castello in sua sostituzione per ammazzare il maiale. Uscito dallo stalletto o dalla gabbia attraverso la porta scorrevole in verticale, il maiale, tenuto dalle due corde davanti e di dietro, era afferrato per le orecchie da due uomini, mentre uno lo prendeva per la coda, e così quasi di peso era portato verso il macello posto alle scale del Cappelletti, davanti al pozzo del Barucci. Istintivamente opponeva resistenza e già in piazza cominciava a stridere, e lo stridio lungo e disperato aumentava, quando con forza veniva introdotto nel macello, mentre il codazzo di ragazzi si teneva timoroso a prudente distanza; tutti impressionati di fronte all’imminenza dell’atto cruento che si stava per compiere. Nel macello ristagnava l'odore del sangue, lasciato dalle centinaia di animali ammazzati. Questo lo eccitava o era soltanto paura di animale, fatto sta che era al massimo del suo furore e poteva diventava pericoloso. Dopo alcune manovre riuscivano infine a metterlo sdraiato di fianco con la testa vicino alla buca di scolo che conteneva un catino per raccogliere il sangue. Appena atterrato, per un momento scendeva il silenzio. Il maiale spossato, grugniva piano, a tratti, e respirava con affanno, mentre gli tiravano il muso reso inerme dalla stretta legatura alla bocca, e piegavano le zampe per scoprire il sottocollo dove qualche secondo dopo sarebbe penetrata la lunga mortale coltella. Con decisione Bruno affondava fino al manico e lavorava alla ricerca del cuore, mentre un rivolo di sangue iniziava a scorrere nel recipiente con schizzi che seguivano il ritmo dell'ansare del maiale che aveva ripreso il suo grugnire soffocato. Era il momento tanto atteso e noi ragazzi si faceva capolino alla porta per vedere. I più coraggiosi entravano nella stanza e si tenevano alle pareti. Alcuni secondi poi, lentamente, il respiro diminuiva facendosi sempre più flebile. Il cuore ferito dalla lama cessava di battere accompagnato dagli ultimi spasmi e convulsioni del corpo. Un attimo di attesa, poi Bruno, tenendo il muso dell'animale, dirigeva verso il recipiente il flusso del sangue che ora abbondante usciva dal largo taglio e infine lo chiudeva con stracci. Lo spettacolo era finito e già era pronta l'acqua bollita per la spellatura delle setole del maiale, effettuata dai lavoranti tenendo le lame delle corte coltelle in verticale per raschiare la pelle. Ma questa operazione poco ci interessava e allora ci si concedeva un'ora di gioco per ritornare poi allo sbuzzamento, cioè lo svuotamento delle budella e degli organi interni cui faceva seguito la squartatura finale della carcassa. Manovrato con catene un verricello munito di gancio, questo era attaccato ad un'asta che teneva i tendini delle zampe posteriori, si sollevava in alto il maiale, in posizione verticale col muso a 30 cm da terra. Tagliato e ripulito degli organi interni, come detto, veniva pesato con una grossa stadera e si aveva il cosiddetto "peso morto".
Nei poderi tutta l'operazione si svolgeva sotto la parata, e il maiale una volta ripulito, ma non spezzato in due, veniva attaccato in una stanza ad una scala a muso all'ingiù in attesa della lavorazione del giorno successivo.
In casa Mori si ammazzavano due maiali e durante la notte uno era tenuto in casa, in fondo al corridoio che portava alle scale e nelle camere. Un po' di segatura in terra per l'ultimo sgocciolare del sangue. Nel buio corridoio questo animale attaccato, davanti al quale dovevamo passare a pochi centimetri, incuteva paura e immancabile era la corsa.


Industriali

Il progresso nella meccanizzazione dell'agricoltura derivato dalle scoperte della forza vapore e del motore a scoppio, unito allo sviluppo delle macchine nei lavori agricoli come tribbie e aratri, ebbe come conseguenza la nascita di ditte specializzate, attive anche nelle nostre campagne fin dalla fine dell'Ottocento. Queste aziende specializzate rivoluzionarono dapprima e in breve tempo il sistema di battere il grano, e successivamente quello della coltratura dei terreni con trattori e della lavorazione dell'olio con i frantoi elettrici. Se l'uso di tribbie si impose quasi subito dappertutto, e tutti i coloni ne beneficiarono enormemente, un po' più lento fu il passaggio dalla coltratura animale a quella meccanica a causa dei costi maggiori che comportava. Un timido passo avanti venne fatto nel periodo fascista con la produzione di trattori italiani, in concorrenza con quelli americani ed europei. Nel secondo dopoguerra la produzione industriale subì un aumento vertiginoso e molte fattorie e coltivatori diretti cominciarono ad acquistare e avere mezzi propri, di tutti i tipi, e così, piano piano, aumentò la concorrenza alle aziende specializzate, le quali, negli anni Sessanta del Novecento in concomitanza con la crisi mezzadrile, dovettero rivedere i loro programmi e in molti casi cessare l'attività; questa fu anche la storia della “Ditta F.lli Mori” di Quercegrossa. Oltre sessanta anni di esperienza nel settore con tre generazioni impegnate a contribuire allo sviluppo economico del Chianti, che compirono il loro ineluttabile ciclo storico fatto di crescita, consolidamento e mantenimento fino alla fine avvenuta nel 1964. Le loro macchine e i loro trattori piazzavano in quasi tutti i poderi e si spingevano fino a Radda e Castelnuovo B.ga raggiungendo una meritata fama e posizione economica di primo piano. Tutto era iniziato nella seconda metà dell'Ottocento a Vignale, Comune di Castellina in Chianti, parrocchia di S. Leonino. Infatti, osservando bene a Vignale le targhe datate poste sulle costruzioni di fine Ottocento veniamo a conoscenza di una formidabile attività di ristrutturazione e costruzione di nuovi ambienti che faranno di questo podere una vera fattoria completa per ogni esigenza. Può darsi che tutto ciò sia dovuto alla proprietà Minucci, interessata allo sviluppo dei suoi poderi, ma non dobbiamo trascurare l'importanza del contributo dato dai Mori in quegli anni decisivi, come appare da certi vaghi ricordi di famiglia. I vari Giorgio, Luigi, Emilio, Serafino e poi Federigo, il fattore, devono essere stati personaggi dotati di carattere, volontà e capacità, e con loro la famiglia si avviò ad abbinare alla coltivazione della terra a mezzadria l'impresa industriale di tribbiatori con macchine a vapore: questo li porterà a fare il salto di qualità. Una cosa è certa, essi raggiunsero ben presto una posizione di prestigio socio-economico che si traduceva nel riguardo che i Minucci gli riservavano: “I Minucci quando arrivavano a Casa Frassi per primi ricevevano i Mori, ormai una famiglia importante”.
Per la loro attività industriale di quegli anni ci fornisce una interessante data di riferimento la dichiarazione autenticata dal sindaco di Castellina e firmata dal macchinista Lorenzo Mori e dal proprietario Luigi Mori:
"Il sottoscritto Mori Lorenzo figlio di Luigi abitante a Vignale Comune della Castellina in Chianti, munito di patente di conduttore di caldaie a vapore rilasciatagli dalla R. Prefettura di Siena l'anno 1901, numero d'ordine della patente N° 70, 10 luglio 1901 - Dichiara - Che Mori Raffaello, figlio di Luigi, residente a Vignale, ha funzionato come fuochista in una caldaia di proprietà del Sig. Mori Luigi, per 2 intiere annate agricole, condotta dal macchinista suddetto".
La data 1901 che corrisponde al rilascio della patente di conduttore di caldaie rilasciata a Lorenzo Mori ci potrebbe indicare l'inizio della tribbiatura pubblica con il motore a vapore, ma questa dovrebbe essere certamente anteriore di alcuni anni.
Di quel periodo che precede il trasferimento a Quercia si ricorda l'uso del motore a scoppio per far girare le macine del frantoio, soppiantando la ciuca o il cavallo. Il motore venne posto in una stanza contigua per trasmettere l'energia alle macine per mezzo di un cinghione e per questo vennero aperti dei fori nelle pareti. Inoltre, si rammenta addirittura la prima grossa moto condotta da Lorenzo che regolarmente era costretto a chiamare aiuto a Fonterutoli per farsi "pintare" nella ripida salita dei Trogoli. E così in quella stretta e faticosa erta, obbligata per Vignale, ardua impresa era farvi salire e scendere le pesanti macchine a vapore. Occorrevano diverse paia di bovi e tanto lavoro di zeppe alle ruote per salire quelle poche decine di metri. Intensa dunque l'attività dei Mori, i quali, tra il podere, condotto con l'aiuto di numerosi garzoni “erano sempre pieni di garzoni”, e di altri contadini del Minucci come Damino Losi, futuro mezzaiolo a Quercegrossa, e la rendita derivata dalla tribbiatura, continuarono ad accrescere il capitale che poi avrebbero investito a Quercegrossa. Per questo fine furono certamente favoriti dalla presenza di un fattore di casa, Federico, fratello di Luigi, il quale da Radda curava gli interessi dei proprietari, e che di certo lasciò alla famiglia grande libertà di movimento per la loro industria. Quando poi si trasferiscono a Quercegrossa, in due mandate, nel 1916 e 1919, i Mori hanno già avviata un'importante attività industriale, consolidata con l'adattamento dell'ambiente del Palazzaccio e della Villa per parcheggiarvi le macchine industriali, il cosiddetto "Stanzone", e per la realizzazione del frantoio, dell'officina e della falegnameria e del nuovo granaio con il sottostante forno. Il loro capitale è sostanzioso e nel 1921 viene impinguato dall’eredità dello zio Federico che lascia loro una notevole somma, oltre a 6000 lire a Niccolò Mori e 14.000 lire alla vedova Olimpia Olivieri. Qui approfitto per rimediare all’errore compiuto nella storia della famiglia Mori nel primo volume. Un errore indottomi dal parroco di Radda che nello stato delle anime del 1921 inequivocabilmente scrive che Carolina Bertuccini è moglie del fattore Federigo Mori fu Niccolò, mentre in realtà Olimpia e sempre viva e vegeta ed erediterà la somma indicata; errore del parroco o mistero da chiarire? Nel suo testamento Federigo non dimentica nessuno e più piccole somme vanno alle tante donne di casa Mori coniugate, che ricevono dalle 400 alle 500 lire ciascuna, e lascia anche 100 lire alla Congregazione di carità di Radda e 50 lire alla Filarmonica di Radda.
La morte di Lorenzo nel 1924 e la liquidazione dell'altro fratello Giuseppe non turbano minimamente il lavoro industriale di Raffaello, del quale si ricorda la sua grande energia lavorativa, mentre Lorenzo era più a fattore, che negli anni Trenta raggiunge la sua massima attività con l’impiego di numerosi operai locali. Anche le terre vennero adeguate ai nuovi tempi con la divisione in tre poderi. Sono anni d'oro per l'Azienda e per la famiglia e il momento culminante si aveva a fine tribbiatura quando in una giornata festiva erano invitati a pranzo tutti gli operai. Nella villa, veniva apparecchiato in sala e nella circostanza si liquidavano le paghe. Era un giorno di festa.
Il dopoguerra vede i fratelli Mori investire per rimodernare il parco macchine, ma la crescente crisi mezzadrile con la diminuzione del lavoro ed alcune annate andate così, così, per le proteste dei contadini contro gli stessi, crearono una crescente situazione debitoria che costringerà i Mori a cessare ogni attività e vendere parte della proprietà per far fronte al passivo. Ma la fine sarebbe stata comunque inevitabile, come fini il sistema mezzadrile al quale loro erano strettamente legati. Una società costituita da Dino Mori e il maresciallo Cosimo Ruberto dopo la cessazione dell’azienda, dalla quale rilevarono una macchina tribbiatrice, ebbe vita breve.
Allego a queste righe alcune testimonianze e scritti che illustrano l'attività di questa benemerita e unica azienda di Quercegrossa. Fabio Provvedi, contadino dai Mori, ma più che contadino quasi un familiare che indica i Mori come zii, dà un contributo rilevante ricordando perfettamente la stagione della tribbiatura negli anni Cinquanta:
"Lo zio Sandro faceva la zona di Siena, Certosa e Coroncina. Tornavano a casa ogni settimana e al ritorno facevano la Ripa, Macialla e Maciallina. Lo zio Dino faceva Vagliagli, Aiuola, Pievasciata e al ritorno Mocenni e Petroio; lo zio Berto faceva Gardina, la Magione, Gardinina, Quercegrossa e il Castello”.
La squadra operaia dietro la macchina era composta da 4 persone: un Mori, un trattorista e due imboccatori. Tra gli imboccatori si rammentano: Stampone (Nello Provvedi), il Mecacci Ezio, Gosto Torzoli, Piero Rossi, Fino Landi. Trattoristi lo stesso Fino, un Sarchi e altri di Siena. Beppe Mori andava col motore a foco. Avevano due motori a vapore un 70 e un 90 che venivano trasportati con i bovi. Poi allo zio Sandro che andava a Siena comprarono un trattore Ford. La Trenta fu acquistata dopo la seconda guerra. I Mori, quando tornano a Quercia, avevano una macchina per tribbiare e dopo poco ne acquistano un'altra. Nel dopoguerra avevano tre macchine per il grano, una per i semini e una per il granturco. Quella da 80 la prendeva lo zio Berto, una da 90 lo zio Dino e una da 110 lo zio Sandro; i numeri sono la misura della bocca in cm per l'imboccatore”.

Il Pianigiani di Vignale, della famiglia che vi tornò dopo i Mori, rammenta che avevano 4 macchine per tribbiare.
- Nel 1954/55 Antonio Bardelli operaio con Mori e Buti per la tribbiatura.
- “Ilio Taddei con Sandro e Berto a tribbiare 3/4 anni da trattorista.
- La prima piazzatura per tribbiare dal Giannini fu fatta nel piazzale a fianco della scuola. La capanna ancora non era costruita”.
Raffaello Mori: “Il Ford fu il primo trattore dei Mori, dall'America, e coltro a due orecchi uno sopra e l'altro sotto".
Nel secondo dopoguerra aumentò la richiesta di coltratura col trattore. Alla sua stagione tutta la notte si udiva nei piani di Topina e altri luoghi in rombare del trattore del Mori.
Sestini Bruno ricorda, quando era piccolo, il Mori Raffaello con certi baffi, e il giovane Dino energico e scattante, tribbiare nel Chianti. A San Giusto alle Monache c'era l'ultimo mezzadro che facevano Raffaello e Dino. Bruno si ricorda che c'era l'impegno da parte del contadino a tirare la tribbia, l'elevatore e il motore a vapore piccolo (ne avevano due i Mori, uno grande e uno piccolo) fino ai piani di Vagliagli dal bivio di Pianella. Ci volevano 6 paia di bovi. Ricorda due imboccatori: uno di Gardina e uno di Topina certo Orazio Parigi.
Bruno è stato aiuto motorista durante la guerra: era stato richiesto per l'esonero. Andava a tribbiare con lo zio Sandro, Fino e il Pettorali di Belriguardo, un omino basso con le gambe storte. Quando lo zio Sandro si ammalò di pleurite ed era sofferente, si trovavano a Radda e partirono per casa la mattina. Avevano messo il malato sul piano dell'elevatore e fatto un letto di foglie di granturco per ammortizzare le scosse. Arrivarono a Quercia a notte alta. Il trattore Ford non aveva fari e Fino Landi, nella discesa dopo Fonterutoli, li precedeva con una lucerna in mano per illuminare la strada sterrata. Non era uno scherzo guidare trattore con tribbia, elevatore e un carrello per il materiale in strade strette e piene di curve.
Quando erano fuori la notte dormivano quasi sempre nei pagliai, raramente nei poderi e fattorie. "A tribbiare di solito piazzavano la sera e dopo cena si buttavano sotto la tribbia e dormivano". Marcello Landi: "La tribbiatura a Viareggio con i Mori. Prima con la macchina a vapore che veniva alimentata a legna, a fuoco continuo. Legna presa da una catasta preparata per lo scopo. Per andare al Mulinuzzo veniva trainata con i bovi".
"I semini li tribbiavano a Quercegrossa all’attuale fermata del tram. Finita la tribbiatura del grano, a settembre, ottobre, veniva piazzata la macchina dei semini, erba medica, trifoglio, sulla, fieno e il bolognino che era cibo selvatico; i contadini venivano coi carri e tribbiavano".

Rossi Piero andava con i Mori a tribbiare i semini verso Cerreto: "Il lupinello ... ti dovevi trovare una fonte per lavarti dal pizzicore che avevi addosso".
"Avevano i Mori un camion Doge e andavano a prendere la pietra serena a Greve. Loro, i Rovai, lavoravano la pietra".

Una sera di luglio del 1956 il lungo convoglio dei Mori, con il Volpini e lo zio Sandro, proveniente dalle zone di Montalbuccio, saliva faticosamente la via di Pescaia, quando venne fermato da una pattuglia di Carabinieri. Avevano notato l’assenza delle richieste bandierine di segnalazione e alla guida un giovane, quasi un ragazzo. Infatti era il quattordicenne Raffaello Mori che conduceva il treno composto dal trattore con dietro la tribbia, l’elevatore e un carro con gli attrezzi. Chiesero documenti, spiegazioni e la multa era sicura. “Ma vede sono anni che si viaggia così, e poi guardi, dato che io non arrivo ancora ai pedali del trattore, il mi’ babbo ha messo una tavoletta di legno al pedale della frizione e vo benissimo”.
Il Carabiniere, il quale avrebbe dovuto multare e sequestrare tutto, di fronte a quella insolita, strana situazione e all’innocenza del ragazzo, non se la sentì di procedere e preferì non infierire andandosene per la sua strada.
Vedendo il loro vasto raggio d’azione di tribbiatura si può pensare che i Mori esercitassero una forma di monopolio nei lavori agricoli meccanizzati, ma ciò non era assolutamente vero perché incontrarono la concorrenza di alcuni imprenditori vicini tra i quali il più importante fu il Buti delle Miniere, attivo dal 1923 al 1997. Ma l'impresa iniziata dal Vienni Giuseppe del Castello fu forse la più sentita perché nata si può dire alle porte di casa e in forte concorrenza con loro. Investita una discreta somma nell'acquisto di una macchina a vapore, la tribbia, l'elevatore e un trattore, Giuseppe Vienni, con Giovanni Bandini fuochista, svolse dal 1934/35 al 1938 un'attività di tribbiatura in alcuni poderi della zona. "I Sestini di Gaggiola tribbiavano col Castello". In seguito, con la liquidazione della proprietà da parte della moglie Teresa Cerpi, anche l'attività industriale terminò e la macchina tribbiatrice con trattore e accessori venne venduta all'asta alle Taverne per un ricavo di lire 10.000. Si rammenta come Sallustio Sestini, interessato alla compera, appena saputo dell’asta si precipitò in bicicletta alle Taverne, ma giunse troppo tardi. Dal processo di industrializzazione non rimase certamente escluso il senatore Sarrocchi a Passeggeri, sempre attento alla produzione e al progresso, che si dotò di macchina da tribbiare per uso dei suoi poderi come risulta dall'inventario del 1949. Non si conosce l'anno di acquisto. L'inventario riporta: “Una tribbiatrice; un vaporino; un portapaglia e una sgranatrice da granturco senz'altro a mano”, ma continuò a tribbiare con i Mori.




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