- EMMA SERGEANT, LA PITTRICE DEL DRAPPELLONE DEL 2 LUGLIO 2022 -

Presentazione del Drappellone di Emma Sergeant
per il Palio del 2 luglio 2022
DUCCIO BALESTRACCI
Emma Sergeant, inglese, è, si può dire, figlia d’arte; nel senso primo del termine, perché la sua è una famiglia di artisti, ma anche nel senso che è figlia, per così dire, d’arte di una cultura british di lungo corso, fatta di un mix di eleganza, tradizione, consapevolezza delle proprie radici e, al tempo stesso, di curiosità, anticonformismo, voglia di conoscere, richiamo di un altro e di un altrove.
Nella sua formazione c’è (e non è un epifenomeno né un passatempo, ma un’adesione empatica quale noi senesi conosciamo benissimo) il britannicissimo amore per il cavallo. E non è un caso se questo animale finisce per essere uno dei soggetti più frequentati dalla pittrice. Nei suoi quadri, il cavallo è, sovente, raffigurato di muso, ma, molto spesso, il nobile animale assume un’imponenza quasi monumentalizzata dalla postura ferma e dalla tridimensionalizzazione data dalle sfumature, dai chiaroscuri, dal gioco dei grigi (soprattutto nelle immagini in bianco e nero ) che rinvia ai destrieri raffigurati a Mantova nel Palazzo Te da Giulio Romano: quei cavalli della razza Gonzaga, imbattibili nei palii italiani del Rinascimento.
Autrice di ritratti fortemente materici in cui le pennellate scolpiscono le espressioni come fossero colpi di scalpello, Emma Sergeant, la sua vita e i suoi stilemi, sono, però, ben presto risucchiati dall’esotico: appena venticinquenne viaggia in Afganistan, una terra della quale cattura colori e volti resi come di deità pagane; viaggia in Africa subendo la fascinazione di vestimenti dall’iperbolico cromatismo, e di espressioni ieratiche, impenetrabili, talune quasi da sembrare in trance sciamanica.
Non finisce mai di sfidare se stessa: si cimenta con la dimensione ipertrofica nel ciclo dei delfini azzurri, opere talmente grandi da risultare difficoltosissime da spostare; si addentra in un filone al limite del metafisico: i clown in abiti e situazioni sceniche improbabili e inquietanti; quasi di regola dis-centrati (come moltissime altre sue figure: inclusi alcuni ritratti) quasi che il centro euclideo fosse, nella sua mente, un irritante inchiodamento che castra la libertà della figura, alla quale, invece, si vuol lasciare la scelta di cercarsi la porzione di scena in cui si sente maggiormente a suo agio o dalla quale, comunque, riesce meglio a comunicare l’inquieto animo di chi, quella figura, ha realizzato.
E il tutto, sempre adattando le tecniche agli stili e ai soggetti, dalla tecnica mista tempera/acquerello a quelle rinascimentali, al bianco e nero. Chi voglia guardarsi la serie dei ritratti realizzati in carcere, quelle figure in cui il dramma e la sofferenza emergono senza un briciolo di retorica, né di pietismo, né di zuccherosa compassione, chi abbia voglia di guardarsele – dicevo – non potrà fare a meno di restare colpito dalla intensità di quei volti e da un tratto grafico in cui (in questo come in altri casi) le due dimensioni del foglio esplodono e – non tanto coinvolgono – ma proprio risucchiano l’osservatore.
Con Siena Emma Sergeant ha un rapporto di lungo corso: in un’intervista, dichiara che questa nostra città la intriga, che la coinvolge la sua gente piena di passione. I pezzi più importanti della mia vita – dice - si riassumono in Siena. Si “riassumono”. Attenzione al verbo usato, perché non è casuale: quando in un luogo si “riassume” la vita (almeno quella rappresenta dagli elementi esistenziali, psicologici ed emotivi più importanti) vuol dire che quel luogo non è solo un bel posto da visitare o, perché no?, da viverci più o meno a lungo, ma è ciò che un grande scrittore libico, Hisham Matar, ha reso (e proprio parlando di Siena) come un “un punto di approdo”.
E la Sergeant questo punto di approdo lo ha trovato, anche lei, in questa città, nella sua gente e nell’espressione principale dell’una e dell’altra: la Contrada. Per la Tartuca, nel 2018, realizza una mostra di sue opere (in quello scenario unico che è il museo di quella Contrada) “Touch the Spirit”. Per questa occasione la Sergeant mette in esposizione, fra le altre opere, un trittico, la cui storia riassume alla perfezione il suo impatto folgorante con Siena e con il Palio. Ne trovate la storia su YouTube, se vi interessa, ma ve la riassumo, anche se rozzamente e me ne scuso. Quest’opera, dice l’artista, sapeva già il suo destino prima che lo sapessi io. In origine era la raffigurazione di un cavallo che la impegnava in cerca della sua definizione che faticava, però, a realizzarsi. Questo quadro, dice, non voleva lasciarmi. Poi un amico, che conosce bene la realtà paliesca senese, le suggerisce di venire a Siena e di vedere il Palio. E qui il quadro trova, anch’esso, il suo “punto di approdo”. Diviene un trittico quasi medievale, composto da due cavalli laterali che, come santi laici, accompagnano l’icona centrale in cui, al posto di un’immagine sacra, c’è un personaggio con la montura della Contrada. Medioevo, contemporaneità, sacralità laicizzata (posso dire neopaganizzata?), assunzione consapevole dell’importanza dei soggetti rappresentati, ma senza alcuna scontata retorica da parata.
Ditemi voi se una persona così ha capito o no Siena, il Palio, la sua gente e l’anima collettiva di questa città.
E veniamo, pertanto, al Drappellone di questa sera.
Un intellettuale non può accontentarsi di conoscere una cultura sola (sennò non è un intellettuale), ma, le culture con le quali viene in contatto, può legittimamente scegliere se mescidarle e rifonderle in una cultura nuova tutta sua, personale, oppure farle convivere, ciascuna mantenendo la sua cifra, in un contesto ibrido che, da questa dialettica convivenza in cui nessuno perde niente, ma tutti entrano in empatia con l’alterità, genera un vortice di sensazioni, di reazioni, di stimoli.
Emma Sergeant fa esattamente questo, e tutte le anime che abbiamo fin qui visto le fa convivere nel suo drappellone in cui la complessità e l’ibridazione scomponibile che denuncia le cifre d’origine, sono espresse in una pittura tutta cromaticamente giocata sui toni del grigio, del nero e del rossastro, un rosso-mattone “sporcato”, che si ritrova a piene mani nelle immagini “africane” e “asiatiche” di Emma. Quel rosso che crea, con le sue sotto-gradazioni cromatiche, il fascino dei copricapi e dei mantelli con i quali la pittrice “veste” le sue figure più elaborate e sontuose della serie di pitture “tribal”.
Il nero e il grigio, a loro volta, altro non sono che citazioni della tecnica che Sergeant padroneggia con maestria.
Le figure-chiave danno vita ad un co-protagonismo: il muso del cavallo in primissimo piano sfuma, senza che quasi si avvertano i confini fra un’icona e l’altra, nell’immagine della Madonna in posizione, ancora una volta, dis-centrata, e le due figure, così, fondono non solo i “segni”, ma le anime del lavoro della pittrice.
Analizziamole una per una.
Il cavallo.
Come si è detto, è un soggetto usuale delle pitture dell’artista, e la sua presenza nel drappellone non è una ammiccante strizzata d’occhio al Palio senese, ma una dichiarazione di adesione al diffuso e condiviso amore per questo animale che la fa emozionare esattamente come si emoziona ognuno di noi, senese. Ecco perché il cavallo è il vero protagonista del drappellone, con il suo muso imponente che entra in contatto fisico con gli stemmi di alcune contrade, sfiorate con la criniera o con le vibrisse, quasi a volersi fare largo, insofferente di uno spazio insufficiente per la sua maestosità, e alla ricerca della collocazione ideale nell’impaginato.
La Madonna.
Quella di Emma Sergeant è una Madonna fortemente materica il cui volto (che ha tratti somatici significativamente vicini al volto di Emma Sergeant, tanto da chiederci se l’artista abbia voluto immedesimarsi, con un atto di amore, con la figura più importante di ogni Drappellone: quella figura che è dante causa del Palio stesso e che riassume in sé l’amore per Siena e la sua festa che i Senesi da lei invocano, e che l’artista, con questa immedesimazione, attesta per la città e le sue Contrade, se non “protette”, di certo da lei avvolte in un abbraccio) il cui volto, dicevo, risente dei richiami che l’artista avverte da altre, già evocate, culture, forse perfino da altre epoche che sembrano convocarla, perché la faccia della Madonna ha il sentore di altre voci, altre stanze. La pittrice ha, infatti, dichiarato che si è posta la domanda di come rendere un volto che può essere interpretato tradizionalmente come la stereotipata figura da (alla lettera) santino.
Legittimo, ma banale.
Oppure, quella stessa immagine, può essere resa (come spesso è stato fatto) nella cifra della quotidianità, totalmente a-sacralizzata, come di una donna qualsiasi che si incontra per le scale o per strada.
Legittimo anche questo, ma originale le prime volte; ripetitivo in quelle successive.
Oppure.
Oppure, come si chiede la pittrice stessa, può essere resa con una cifra di deità sumerica? piena di sacralità non scontata, ma ugualmente intensa? può crearsi in questo modo una liaison non scontata, né già vista, fra il divino e l’umano?
Se questa era la domanda cruciale che l’autrice si è posta, credo di poter dire che la sintesi operata è stata felice. L’immagine della Madonna, è, infatti, resa con una pittura che “scava” la figura, che la muove e la rende poco meno che tridimensionale, convocando nella bidimensionalità della pittura la volumetria della scultura. Una “scultura” dipinta che delinea un volto che pare uscito dalla bottega di uno scultore del Rinascimento che abbia gli occhi volti all’appena rinata classicità, con i suoi tratti decisi, ma dolci e armonici; una “scultura” dipinta che rende un’immagine di Madonna al tempo stesso piena di sacro, ma priva di aureole, nimbi o altri facilmente riconoscibili attributi di dimensione metafisica, con il volto e gli occhi assorti in uno stato d’animo sospeso, quasi onirico o di trance, addolcito da una forma di serena piega delle labbra, citazione di un appena accennato sorriso.
Una sorta di storiola a latere, in alto a destra, di tipico gusto medievale, presenta la sintesi icastica dell’intera narrazione: due cavalli con i loro fantini si contendono la vittoria sullo sfondo di un Palazzo Comunale e di una Torre del Mangia appena allusi. Il tutto in un’aura di trasognato bilanciamento fra immagine realistica e traduzione evocata e sognata del momento clou del Palio stesso.
Un ruolo fondamentale, in questo drappellone, è, poi, riservato all’araldica, elemento iconografico che la Sergeant (da brava inglese) maneggia con tutta l’attenzione che ad esso attribuisce un retaggio culturale, come quello britannico, che vede nello stemma la prima carta di identità di un soggetto. E la carta di identità reclama una resa non approssimativa, ma fedele fino al dettaglio: così gli stemmi (talvolta, in altri Drappelloni, solo allusi, reinterpretati, citati) hanno un ruolo, anch’essi, di protagonisti nell’impaginato di questo Drappellone, resi nelle forme rigorosamente ufficiali e canonizzate nelle quali ciascuna Contrada inscrive il suo simbolo. Del resto, perfino nel piccolo drappellone del Palio dei Ragazzi del Valdimontone, dipinto anch’esso dalla Sergeant, che presentava forme di pre-citazione di questo fratello maggiore che stasera abbiamo accanto a noi, anche in quello – dicevo - gli stemmi avevano un ruolo molto evidenziato nell’impaginato, e anche lì erano resi con un rigore filologico non comune. Perfino gli stemmi dei Terzi cittadini (che non di rado ricevono un’attenzione a dir poco distratta da parte dei pittori) hanno, invece, in quest’opera un’evidenza marcata.
Emma Sergeant ci ha dato un’opera niente affatto scontata; ha raggiunto un risultato che è di apparente semplicità, ma che, come molto spesso capita per le cose che sembrano “semplici”, cela, nella sua genesi, nei suoi cromosomi costruttivi, nella sua intelligente riflessione generativa una complessità che sgomenta. Fra una settimana, una felice Contrada potrà gioire, ovviamente, prima di tutto per aver trionfato, ma, in misura non minore, anche per poter accogliere nel suo Museo un grande Drappellone.
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