Racconti a Veglia
(Intro)
(1)
(2)
(3)
Buca
Aperta la vecchia porta tarlata, Armando si ritrovò nel buio dell’antica uliviera che l’acetilene del Pianigiani, dietro di lui, non riusciva a illuminare abbastanza. Mosse il passo verso l’interno e, meravigliato, si sentì mancare il terreno sotto i piedi. Ebbe coscienza di precipitare nel vuoto, un vuoto di quasi due metri di buca senza possibilità di appigliarsi a qualcosa, e con un tonfo cadde pesantemente nel fondo sterrato. Poteva costargli cara quella caduta, ma fortunatamente non riportò nessun danno.
Questo accadde intorno al 1967/68, quando l’artigiano falegname Armando Losi di Quercegrossa si recò a Vignale per visionare, e per un possibile acquisto, l’antico strettoio dei Mori. Era una gabbia di quasi due metri di larghezza formata da stagionate e robuste tavole di noce con la vite centrale dello strettoio scanalata, anch’essa di legno. Venne accompagnato alla vecchia uliviera, un ambiente privo di illuminazione, e perciò il Pianigiani si era munito di acetilene, ma aveva mandato avanti Armando senza avvertirlo dell’esistenza della buca, che una volta era coperta da assi di legno e serviva a raccogliere in grossi recipienti l’olio che colava dallo strettoio.
Una cena persa
Nei giorni di segatura Emma Riversi e Cesira Meli andavano a dare una mano ai Nencioni all’Arginano, e insieme a loro facevano cena o nei campi o in casa. Quella sera la massaia aveva preparato e fritto degli squisiti fiori di zucca e le due donne ne fecero una discreta scorpacciata. Ma Cesira, disturbata dall'abbondante libagione, rigettò tutto il cibo ingerito, fiori fritti compresi, e per questo continuò a rammaricarsi tutta la sera per aver perso una così bella cena.
I fiori di Annita
Una volta Annita, la moglie di Brunetto, alla quale piacevano i fiori, aveva dato del concime, che poi era bottino, alle piante davanti a casa sua. Passando si sentiva un puzzo tremendo e lei ci filosofava sopra:
"Per sentì un po’ di profumo (dei fiori)
bisogna sentì anche un po’ di puzzo (del bottino)”. Parole sante!
Leone
Leone era il cane da caccia del mi' babbo. Una bella bestia, anche se bastardo, ma soprattutto affettuoso, sveglio e capace, se me lo consentite. Nelle battute di caccia pestava e puntava senza sosta, annusando dappertutto e sempre pronto al comando. Quella sera del 1950 o giù di lì, di ritorno a casa sulla strada del Dorcio, anche lui stanco dalla lunga caccia, si muoveva lentamente ancheggiando a fianco del mi' babbo, il quale teneva il fucile imbracciato nella destra con le canne rivolte in basso. Fucile carico, pronto a sparare all'ultima lepre. Sparò anche quella sera, ma involontariamente, perché il colpo partì improvviso e divenne mortale per il povero animale che a fianco del suo padrone già scodinzolava per l'imminente cena e il meritato riposo. Colpito in pieno, ruzzolò di un metro con un guaito di dolore. Il mi' babbo rimase immobile, sconcertato. Leone, con le ultime forze, riuscì ad alzarsi sulle zampe posteriori assumendo la posizione eretta e tentò un passo alla maniera umana verso il padrone, mentre emetteva un lamento che parve un urlo di disperazione e sembrò che volesse dire:
"Che cosa mi hai fatto", prima di stramazzare morto. Questa fu l'impressione che ebbe il mi' babbo, e così l'ha raccontata tante volte, e sempre s'è avvertito il rimpianto per Leone e la sua triste fine. Da allora ebbe sempre una eccessiva prudenza verso le armi.
Pisello
Pisello era il cane di Tono della Ripa. Il fabbro Tono aveva come donna di servizio Emilia, dei Masti di Basciano, che faceva la spesa e gli preparava il pranzo. Nella necessità di andare a bottega a Quercegrossa non partiva lei, ma chiamava Pisello e gli legava uno di quei fazzoletti a scacchi bianchi e celesti intorno al collo, formando una specie di borsa, dove vi metteva un bigliettino con la nota della spesa. Il cane, ben addestrato, sapeva e partiva per Quercegrossa presentandosi alla bottega del Brogi. Dante che sapeva anche lui, leggeva il bigliettino e metteva nel fazzoletto i prodotti richiesti e
"Vai". A quel punto Pisello ritornava alla Ripa e si presentava scodinzolando a Emilia con la spesa.
Un caldo atroce
Quella domenica sera fu di merenda per i Carli nel loro podere del Paradiso. C'erano alcuni amici e c’era Ilio del Nencioni, fidanzato di Rina. Preparata la brace sul prato, una bella filsa di salciccioli incominciava ad arrostire sul nero treppiede. L'allegria e la chiacchiera distolsero i presenti, e il gatto di casa, svelto come un gatto, arraffò la salciccia rimasta ai margini della brace e se la diede a gambe levate. Non poteva sapere che alla prima erano attaccate le altre, e dopo pochi secondi tutti gridavano dietro di lui e alla filsa dei salciccioli. Dopo qualche metro di corsa venne raggiunto e catturato tra il berciare generale con il malloppo ancora tra i denti.
A uno dei presenti, che ritenne di insegnarli di stare al mondo, balenò un'idea maligna. C'era in cucina il fuoco acceso per la cena con il calderotto vuoto messo in un angolo, ma pronto per l'uso. Prese il gatto e ve lo infilò dentro chiudendolo con il coperchio, e lo mise sul fuoco aggangiato alla catena. Non si sa quanto tempo trascorse, forse un paio di minuti. Il fondo del calderotto cominciava a risentire della fiamma e a incalorirsi, mentre acuti miagolii rimanevano inascoltati. Infine venne scoperchiato il pentolone e mai fu visto fare un così straordinario salto a un gatto. Usci come un fulmine dalla sua rovente prigione, e senza quasi toccare terra si lanciò dalla finestra al primo piano e scomparve tra i campi. Lo rividero dopo diversi giorni.
Artigli
Intorno a ogni podere potevi incontrare il gatto o i gatti di casa, tenuti per dare la caccia ai topi che infestavano stalle e interni degli edifici. Ogni tanto però adocchiavano piccoli volatili e, cosa a loro non consentita, arraffavano i pulcini della massaia. In sostanza si dovevano mantenere il vitto per sopravvivere perchè difficilmente veniva dato loro del cibo dalle famiglie. Questo vizio di puntare i pulcini lo prese anche il gatto dei Pistolesi al Castello e alla fine, Pasquina, dopo alcune perdite, credette bene di disfarsene. Acciuffato il gatto e messo dentro una vecchia balla, incaricò Maria di annegarlo nella vicina fonte. Affogare le piccole bestie era il sistema pratico e non violento adottato da tutti per disfarsi di animali malati, vecchi o inutili come gatti, cani o topi catturati con le tagliole. Reggendo la balla con una mano Maria si avviò alla fonte e qui giunta immerse la balla con il suo contenuto nell'acqua che galleggiò per un breve istante, poi cominciò ad affondare sotto la pressione delle sue mani. A quel punto avvenne un fatto straordinario. Il gatto, terrorizzato dall'acqua, dimenandosi aveva stracciato con gli artigli la balla, forse consunta dall'uso, e da quella fessura era fuoriuscito attaccandosi disperato al primo appiglio trovato. Ma l'appiglio erano le braccia di Maria, protese verso l'acqua per tenere la balla, alle quali la bestiola si aggrappò conficcandogli gli artigli nella carne. La paura del gatto si trasmise a Maria, la quale spaventata dal balzo del felino inferocito e ferita dagli artigli, unì le sue grida ai miagolii della bestia che soffiava e mostrava gli aguzzi denti. Maria tentò di staccarsi l'animale dal braccio, il quale però non pensava minimamente di mollare quell'ancora di salvezza. Ci volle l'intervento di un uomo per rimediare a questa storia, e medicazioni per Maria, ma non so dire se il gatto ce la fece a salvare la pelle.
Storie tra gatti
In casa Rossi avevano un gatto che mangiava quel che trovava, non disdegnando nemmeno le sardine che quel pomeriggio Nello Rossi, detto il "Gatto", aveva lasciate sulla madia per la sua merenda, allontanandosi un momento. Tanto bastò al felino. Quando lo zio lo vide leccarsi i baffi dopo aver mangiato le sue sardine, prese un palo dalla legnaia nella dispensa e lo colpì con forza sul capo. La bestia, sorpresa, cadde e rimase immobile, come morta. Pensando di averlo ammazzato e non sapendo dove metterlo, Nello sollevò il corpo inerte del suo omonimo e lo gettò nella buca del gabinetto di casa, che richiuse con il coperchio. Dopo pochi minuti gli sembrò di sentire dei miagolii lontani, flebili, poi sempre più forti. Gli venne un dubbio ed entrato nel gabinetto aprì la buca da dove con un agile salto uscì il gatto, mezzo soffocato e con il pelo completamente imbrattato di bottino; praticamente tutto merdoso. Una cosa incredibile, visto che la larga conduttura scendeva verticale per diversi metri, ma forse il gatto ripresosi appena caduto nel bottino, si era aggrappato a qualche sporgenza in una difficile lotta per sopravvivere. Non sappiamo cosa successe in quel tubo comunque il suo gesto fu vano perchè alla zia Piera, presente al fatto, sembra di ricordare che il gatto, in quelle condizioni, venne ammazzato.
Imparaticci
Camillo del Bianciardi e Cincina cercavano di prendere la patente e arrivavano a piedi a Quercegrossa in una domenica pomeriggio. In piazza ad aspettarli per la lezione di guida c’era il Mencherini con una piccola auto. Intorno, i numerosi presenti del ritrovo domenicale chiacchieravano tranquillamente, mentre con occhio distratto osservavano incuriositi i due che salivano in macchina, con Camillo che si metteva al volante. Accese, e subito il rombo del motore al massimo dei giri richiamò l'attenzione di tutti, mentre Camillo continuava a sgassare a più non posso. La partenza rapida, anzi fulminea, avvenne nella direzione sbagliata e a pieni giri l’auto scattò in avanti battendo bene nel muro della stalla del Losi con un sordo tonfo di lamiere. Trascorsero alcuni secondi poi Camillo da una parte, e Cincina dall'altra scesero zitti zitti, e uno a desta e l'altro a sinistra si allontanarono senza proferir parola.
Fuliggine
“Una sera si volle fare l'arrosto di notte e si mise una fastella nel fuoco”. Questo avveniva in casa Mori sul grande focolare verso il 1939/40. La zia Maria e Settimia alimentarono bene la fiamma, troppo bene, e così prese fuoco il cammino che cominciò a soffiare paurosamente. Le due donne, temendo che prendessero fuoco i palchi, cominciarono a riversare sul fuoco tutta l'acqua di casa provocando nuvole di denso fumo, mentre la fuliggine riempiva il focolare. Un'ora più tardi lo zio Sandro rincasa, era stato a suonare. Appena entrato si rivolge alle due donne.
"Ma cosa è successo, c'è un fumo nero a Quercia che un si respira".
Impresa
Ancora molti non ci credono, ma è vero. L'impresa appare impossibile, ma c'è stato chi l'ha compiuta. Per una scommessa fatta con gli amici del paese, Landino Mencherini salì sulla sua bicicletta girato all'indietro e a sedere al contrario sulla canna. Pose le mani sui manicchioli e i piedi sui pedali e partì. In questa posizione si fece le curve di Quercegrossa partendo dal paese e arrivando al Mulino. Altri compivano l'impresa di fare la discesa senza mani, ma solo Landino vi riuscì rigirato all'indietro e il mi’ babbo ne fu uno dei testimoni. Tanti anni fa, da ragazzo, rimuginando sulle vecchie imprese, volli emularli e provai partendo da Montarioso a fare tutta la strada fino a Quercegrossa senza mani, ma in posizione normale; ce la feci con qualche difficoltà sulla salitella di Macialla. Non è difficile, ma portate il casco se decidete di provarci.
Scorciatoia
Alcuni giovani dei dintorni amanti della bicicletta giunsero a partecipare a gare organizzate. Uno di questi pseudo corridori fu Aurelio Furini di S. Leonino, ma la sua preparazione lasciava a desiderare, e in allenamento:
"Quando da S. Leonino arrivava al ponte di Quercia scendeva e passava dalla strada della Carpinaia spingendo a mano la bicicletta per non fare la salita ... senti che corridore era".
Guido Tognazzi era chiamato Fulmine, e ben si comprende quanto scattoso fosse quella volta che, partecipando ad una corsa paesana di biciclette a Vagliagli, venne battuto e arrivò secondo al traguardo. Preso in giro dal vincitore, stizzito e non convinto della sconfitta, scatto fulmineamente e lo sfidò sedutastante con il celeberrimo
“Vuoi rifare?” seguito da una delle sue proverbiali bestemmie.
Mondo birbone
Era
“Mondo birbone” la locuzione interiettiva preferita da don Grandi che intercalava in ogni sua frase, sia quando sgridava che quando commentava, come riporto ampiamente in altri racconti: praticamente la metteva anche nella minestra.
La vigilia di una delle feste maggiori, nel 1946/47, la sera era tempo di confessioni. Una quindicina di giovani e giovanotti, compreso Dedo, attendevano in chiesa il loro turno, mentre don Luigi Grandi, come soleva fare, li sbrigava velocemente senza tirarla tanto a lungo; per questo venivano anche da altre parrocchie. Nel silenzio religioso si bisbigliavano preghiere e si attendeva, chi in fila al confessionale, chi a sedere sulle panche. All’improvviso, nella penombra di quel luogo scarsamente illuminato dalle candele e da poche lampadine, risuonarono due forti scurregge, una dietro l’altra, che rimbombarono nell’ambiente. Era qualcuno che non ce la faceva più a tenere l’aria nello stomaco, e si era liberato forse involontariamente, ma rumorosamente. Fu tanta la sorpresa e poi la meraviglia, che nessuno riuscì a capire chi fosse stato. Tutti incominciarono a guardarsi l’un l’altro con aria interrogativa. Don Luigi si sporse dal confessionale e alla sua maniera sdrammatizzo:
“Se fate così, mondo birbone, frana ogni cosa”. Chi sarà stato? Nessuno l’ha mai saputo nè tantomeno confessato.
L'inventore
Era un impiegato della Seti, ospite presso i Pagni del Castello ai quali pagava la pigione. Ebbe la sfortuna di trovarsi all'Antiporto di Siena durante il bombardamento e morì sotto le bombe. Ma viene ricordato come inventore dilettante perchè, tra le tante, aveva presentato una novità: una coperta o qualcosa di simile che riscaldava il letto sostituendo l'antico scaldaletto. Era il prototipo della termocoperta e funzionava con lo stesso principio, ma era prudente prima far riscaldare il letto vuoto, e poi entrarvi dopo aver rimosso la coperta. La sua idea morì con lui.
Al capanno
L’attività venatoria consisteva anche nel passare lunghe ore in qualche capanno puntando gli alberi vicini in attesa di qualche volatile. C’erano postazioni fisse, scavate nel terreno, note ai cacciatori della zona, ben tenute, fatte di rami, frasche con un tettuccio di legno e una porta. Si trovavano nel campo a metà strada tra i Cipressoni e i Cipressini e nel bosco della Val di Lama, proprio al confine col campo del Poggio. In quest’ultimo capanno si era sistemato Dante Oretti col suo Ventotto per gli uccelletti. Aveva tutt’intorno piazzato le gabbie con i merli da richiamo e già avevano iniziato a cantare. Lui, in silenzio, dall’interno scrutava i vicini ulivi e le piante del bosco. All’improvviso una fucilata vicinissima lo sorprese, mentre una sua gabbia andava in cento pezzi disintegrata dal piombo sparato, e la stessa fine fece il povero Merlo che cantava a squarciagola. Senza indugio uscì dal capanno e non gli rimase altro che constatare il danno subito. Forse, si disse poi, sia stato il Giachini, il quale sentendo cantare il merlo gli aveva tirato, non distinguendo la gabbia.
Il Giachini era un noto bracconiere e cacciatore, e tutti i luoghi erano buoni per ammazzare qualche volatile da fare arrosto. Un pomeriggio si era piazzato sulle sponde del borro vicino al Mulino, e nascosto in un macchiaio faceva il verso con la bocca per richiamare i merli. Il suo fare era stato scorto da alcuni ragazzi che gli si avvicinarono nel più assoluto silenzio, e mentre il Giachini fischiava ai merli, loro al di sopra delle macchie diedero il via a un incessante lancio di zolle di terra, tanto da riempire letteralmente il macchiaio. Alla fine il Giachini uscì, ma era tutto terroso.
Oltre ai capanni fissi vi erano quelli mobili, che ogni cacciatore si costruiva per proprio conto, ed erano postazioni di breve durata. Rutilio Bruttini, un uomo grande e grosso, se l’era preparato la sera precedente con rami e foglie, e intendeva passarci la successiva mattinata. Ma quando la mattina presto arrivò al capanno lo trovò occupato, e l’occupante non sentiva ragioni e non aveva nessuna intenzione di uscire. Era il Giachini, che come al solito sfruttava la roba altrui. La discussione fu breve perchè Rutilio capì subito le intenzioni di Beppe.
“Allora guarda come si fa”, disse al Giachini accoccolato dentro. Prese con una bracciata frasche e rami e se ne andò col capanno sottobraccio, e il Giachini rimase lì, a sedere all’aperto, come un bischero.
Un cane da guardia
Quella sera Marcello Landi e Gosto Bruttini decisero di dare una scaricata al ciliegio della villa del Castello, anche se alla base della pianta c’era legato alla sua cuccia il cane lupo da guardia del Pratellesi. Era però una vecchia bestia, mezza cieca e sorda, che non li impensieriva più di tanto. Alla luce della luna passano dalla strada delle buche della scarpata che guarda Gardina. Si avvicinano ratti ratti e salgono come fantasmi sulla pianta, senza che nessuno, cane lupo compreso, si accorga di loro. Di ramo in ramo Gosto mette i piedi su uno più piccolo: “Ti si rompe, ti si rompe”, gli bisbiglia Marcello, ma sono parole inutili perchè il ramo si stronca e Gosto, persa la presa, casca. Cadde proprio sulla cuccia del cane, che svegliato cominciò ad abbaiare con la sua voce roca
“Buuu ... buuu”. Dieci secondi più tardi si aprì la finestra della villa e apparvero in pigiama e vestaglia il sor Pietro con la Marietta accanto. Lui aveva il fucile in mano e puntava nel buio, ma forse era più impaurito dei due ladruncoli che nel frattempo se l’erano svignata nell’ombra, senza lasciar traccia.
Bruciaculo
Vittima di un’infiammazione al sedere, che gli procurava un bruciore insopportabile, Dedo non sapeva più che pesci pigliare per lenire il dolore. Col borotalco non passava, tantomeno a lavarsi con l'acqua diminuiva l’irritazione. Allora pensò all'alcool visto che veniva usato per disinfettare, e si diede una bella strofinata tra le mele. Fu come mettere benzina nel fuoco. La reazione fu terribile, la carne bruciò e la sofferenza divenne insostenibile. Bisognava subito fare qualcosa; bisognava soffiarci, ma naturalmente non ci arrivava. Sembrava uno di quei momenti dove tutto è perduto. Allora gli brillò l'idea, l'idea della disperazione, che spesso aiuta a risolvere tanti casi. Afferrò la gomma del vino e ci soffiò forte dentro indirizzando l'aria che usciva dall'altra estremità là dove gli frizzava. Soffiò a lungo fino a che non ebbe sollievo al suo bruciaculo.
Il maiali scomparsi
Un branco di maiali pascolava nei dintorni di quel podere della fattoria di Passeggeri. Razzolavano il terreno in cerca di radici e ghiande, grugnendo come fanno tutti i maiali. All'improvviso il silenzio scese in quelle terre, e quando il contadino si avviò per rinchiuderli nello stalletto, dei maiali non c'era nemmeno l'ombra. Cerca a destra, cerca a sinistra, cerca nel bosco, nei campi, non si trovavano. Allora, paventando un furto, chiamò i carabinieri ed espose il fatto. Continuarono insieme la ricerca fino a notte, ma i maiali non si trovarono; erano proprio spariti. Il giorno dopo un ragazzo di famiglia girò alla cantonata della costruzione vicino casa e gli sembrò di sentir grugnire. Corse ad avvertire gli uomini che andarono a vedere e trovarono i maiali rinchiusi nel granaio. Entrati nella stanza la sera precedente, i maiali avevano cominciato a ruzzolare nel monte del grano. Razzola razzola, lo avevano spinto verso la porta che si era chiusa impedendo loro di uscire all'aperto e, sazi di grano, si erano chetati. La cosa era insolita e a nessuno venne in mente di cercarli nel granaio.
Moglie e marito
Una donna di Quercia rimasta vedova da poco tempo, incontrò nel campo un'altra sposa del paese, la quale, cercando di consolarla, gli vantava le qualità del suo defunto marito. Alla fine presa dalle sue stesse parole, convinta della grave perdita subita dall'amica e credendo di fargli piacere, espresse apertamente quello che invece era un suo inconscio e represso desiderio:
"Almeno se era morto il mio di mariti".
Quando fra moglie e marito i rapporti si facevano un po' tesi, il marito quasi a sdrammatizzare si volgeva ai ragazzi o chi gli stava intorno e diceva:
"Lo sai come fanno le campane di Tregole: L'haivoluta - etientela, l'haivoluta - etientela, l'haivoluta - etientela".
Le uova di Chiarina
In una non ben precisata circostanza, la popolazione di Quercia si attivò per fare un regalo al parroco don Ottorino.
Anche le giovani Raffaella, Lucia e Laura Mori vogliono partecipare alla festa e contribuire all'acquisto di un paio di ampolle da Messa. Ma sono tutte al verde e si ingegnano per racimolare qualche lira. Gli viene in mente di vendere delle uova al treccolone, uova da prendere nel pollaio di Chiarina dei Costanzi; nessuno se ne sarebbe accorto, era già successo altre volte. Organizzano il colpo, e mentre Lucia e Laura fanno da palo al murone, Raffaella si introduce guardinga nel pollaio, e dai cesti preleva le uova che mette nella sottana tenuta rialzata con una mano come fosse un grembio. Improvvisamente l'allarme
"C'è Chiarina, c'è Chiarina".
Raffaella spaventata lascia la presa della sottana e una decina di uova si rompono a terra. Scappa a corsa dal pollaio e fugge lontano con Chiarina che minaccia a mano alzata:
"Se ti prendo ti strappo le trecce".
Ragazzi di casa Mori al tempo del furto delle uova. Da destra: Lucia, Lorenzo, Paola, Mariangela, Raffaella, con le famose trecce che gli voleva strappare Chiarina, Roberto e Laura.
L'aringa mobile
Silvano Socci verso i dodici anni andò da Brunetto Rossi per apprendere il lavoro di falegname. Guadagnava 5 lire la settimana che servivano per il macellaio la domenica. Quando con Brunetto andavano nei poderi per lavorare a domicilio, partivano la mattina e là rimanevano tutta la giornata. La mamma Maria preparava a Silvano il tascapane e gli dava un'aringa da cuocere al fuoco. Ma gli ospitali contadini davano loro da mangiare preparando sempre qualcosa di buono, e lui riportava l'aringa a casa. La mattina dopo la solita storia, e così per diversi giorni l'aringa faceva avanti e indietro.
“Di solito quando si lavorava nelle case, il giorno si mangiava insieme a loro. Quando la massaia preparava il pranzo si stava attenti ai colpi sul tagliere. Se il colpo era secco, "coniglio", diceva Brunetto, se invece dopo il colpo la massaia strascicava, "baccalà" sentenziava”.
Levataccia
Quella notte avevano fatto tardi, anzi tardissimo, e Fabio Losi rientrò in casa alle sei del mattino. In cucina però incontrò il babbo, già alzato e pronto al lavoro, che gli chiese dove andasse a quell’ora.
“Al gabinetto”, rispose prontamente Fabio, cercando di fargli credere di essere a letto.
“Al gabinetto, vestito così? Con la cravatta?”, e lì fini. Fabio andò a coricarsi e già dormiva beatamente da alcuni minuti quando si sentì chiamare. Era il su’ babbo:
“Gnamo, sveglia, c'è da andare a raccattare i viticci”. Partono e vanno nelle prese adiacenti la strada di Petroio, vicino all’Olmicino. A metà mattinata Fabio
“dorme in piedi”; il Gazzei gli s’avvicina:
“Ora vai a letto, ma non ti ci riprovare”. “Andai a letto dormii tutto il giorno e la notte successiva”.
Nafta
Lo zio Dino e Raffaello erano a tribbiare in un podere delle Fornacelle di Siena. Avevano con loro fidati ed esperti operai come Corrado Panti, il trattorista, Stampone e il Mecacci come macchinisti. A metà tribbiatura finì la nafta del trattore, il cinghione si fermò e si smise di tribbiare fra la costernazione di tutti. Stampone e il Mecacci cominciarono per scherzo a prendere in giro Corrado:
"Ma che trattorista sei se finisci la benzina", e altre battute simili. Corrado se la prese a male, si imbuzzì e senza dir parola se ne andò. Dopo un paio d'ore, non vedendolo tornare, cominciarono a cercarlo, ma senza esito; nessuno l'aveva visto. Allora si preoccuparono. Corrado tornò la sera quando era già buio, quando smontavano:
"Guai a voi se gli dite qualcosa", ammonì lo zio Dino rivolgendosi a tutti.
Un assaggio
Un pomeriggio Scoiolo entra di buon umore nella Cooperativa. Al banco c'è Graziella, la moglie di Lorio, che lui saluta con la solita allegria, mentre va diretto alle bottiglie del vermouth esposte lì vicino. Ne prende una e, senza nemmeno guardarla, incomincia a svitare il tappo. L'apre con tutta calma, mentre Graziella lo tiene sott'occhio, un po' sospettosa, ma non dice parola. Scoiolo come se niente fosse si porta la bottiglia alla bocca e ne assaggia un lungo sorso. Con la mano che tiene il tappo si pulisce la bocca, e accenna con una smorfia di non aver gradito:
"Questo non mi piace, non lo voglio", e rimette la bottiglia al suo posto, dopo averla richiusa a dovere. Poi, senza fiatare ulteriormente, esce di bottega. Graziella, colta di sorpresa, non ha fatto in tempo a replicare. Borbotta qualcosa a scoppio ritardato, ma Scoiolo è già sparito.
La sera quando Lorio rientra dal giro nelle campagne è la prima cosa che gli racconta:
"Sai, c'è stato Scoiolo, ha fatto questo e questo …". “Si, si, lo so! E' uno scherzo, domani viene a prendere la bottiglia aperta”.
Cocomeri
Con Mauro Landi, aspirante fidanzato di Luciana Sestini, si presentava a Gaggiola anche Elio Rodani che mirava alla mano di Isanna. Il babbo di lei traccheggiava nel concedere l’autorizzazione al fidanzamento, e anche quella sera i due amici uscirono di casa senza aver ottenuto nessuna promessa. Percorrendo la strada del ritorno, passarono accanto al poponaio con alcuni cocomeri ben maturi, e non persero occasione di una piccola vendetta. C’entrarono decisi e fu lì che Elio disse la famosa frase:
“La figliola non me la vuol dare, ma i cocomeri si”.
La scossa
Durarono anni di farlo e molti ci cascavano regolarmente.
Bottega del Cappelletti, Silvio a sinistra e Mauro Tognazzi a destra. Il banchino quadrato straboccava di martelli, trincetti, lesine e di tutti quei piccoli accessori da calzolaio. Pendente dal soffitto, un largo piatto della luce con una bella lampadina illuminava il lavoro serale dei due artigiani. C'era sempre stato un contatto nei fili della luce, e ciò provocava una scossa della corrente a 160 W a chi li toccava. Quando sentivano che qualcuno stava per entrare in bottega, svitavano subito la luce e, facendo finta di armeggiare con gli attrezzi nella penombra, chiedevano al malcapitato se per piacere gli avvitavano la lampadina perché ormai
"… non ci si vede più". Solerte il poveretto afferrava il piatto della luce e prendeva la scossa. La scarica elettrica gli pizzicava la mano, e lui con mossa veloce la ritirava, mentre i due calzolai ridevano sotto i baffi per la loro nuova vittima.
Il serpe di Gigi
I ragazzi di Quercia, i soliti Marcello, Giulio, Bernardo ecc., dopo la messa tardi delle undici sciamarono sul campo davanti alla chiesa e si misero in oziosa chiacchiera sotto il ciliegio. Uno di loro, girando lo sguardo annoiato, vide a due passi sul terreno un bel serpe verde arrotolato che si scaldava al sole di mezzogiorno. Pensarono bene di catturalo, mentre nella mente di tutti si fece subito largo il pensiero di uno scherzo da giocare a Gigi di Carletti che avevano visto andare verso Quercia. Gigi aveva un grande terrore dei serpi. Era una paura innata, peggiorata da quando era stato vittima di un feroce scherzo nei campi di Viareggio che lo aveva traumatizzato. Un contadino, conoscendo questa sua debolezza, mentre segavano, gli aveva attaccato al gancio della falce, che portava dietro alla cintura, uno spago legato a un serpe morto. Appena si accorse del serpe disteso dietro di lui, Gigi scappò impaurito a gambe levate, ma il rettile, come vivo, saltava e naturalmente gli rimaneva alle costole. Ora, i giovani, catturato il serpe che avevano tramortito con due colpi ben assestati, lo incartarono bene con la carta gialla della bottega e posero questo pacchetto nella fossetta della strada, dove entro pochi minuti sarebbe ripassato Gigi. Non si fece attendere molto, mentre loro si tenevano nascosti per seguirne la reazione. Gigi vide il pacchetto di carta gialla, si guardò intorno e non c'era nessuno. Allora si abbassò, lo prese, se lo mise sotto braccio e continuò il suo cammino come se niente fosse, con la speranza di aver trovato qualcosa di utile. Arrivato a Leccino, prima di salire in casa fu visto dai ragazzi che lo seguivano dal campo, stracciare la carta gialla, e dopo pochi secondi lanciare un urlo, e il pacchetto con il serpe tramortito volare lontano. Appena vista l'immonda bestia in Gigi erano riaffiorate tutte le paure del mondo e fu colto da batticuore. Duilia sentì berciare e si affaccio:
"Ma che succede?". "Ho trovato un pacchetto e dentro c'era un serpe". "Ti sta bene", rispose irritata Duilia,
"Così impari a raccattare tutto quello che trovi per la strada".
Fantasmi
Fine anni Cinquanta: estate. Si chiacchiera alle panchine del Mori, mentre Nunzia e Armando amoreggiano dietro il portone. Armando gioca uno scherzo agli amici. Prende un secchio d'acqua e lo butta nella tramoggia da dove l’acqua scarica proprio sopra le panchine. Dedo è infradiciato e se ne va imprecando. La serata è già riscaldata e gli amici architettano uno scherzo a Fabio Provvedi. Preparano l'atmosfera cominciando a raccontare di paure, del lume fatuo che accompagnava la notte, di quell'uomo che entrò di notte nel cimitero, che si sentiva in quella casa, di fantasmi ecc. Insomma, tutto il repertorio, accompagnato da particolari spaventosi. Fabio era facilmente influenzabile, e a un certo punto:
"Io vo a letto ragazzi. Ciao". "Sì anche noi si va via, Ciao! Bona!". Non rimase nessuno. Ma appena Fabio ebbe svoltato l'angolo di Casagrande dove abitava, Marcello e Gosto, agili come gatti, aggrappandosi alla finestra bassa poi al davanzale di quella al primo piano, scavalcano ed entrano nella camera di Fabio, e si infilano sotto il letto. Un letto basso con una rete allentata e un materasso di lana che gli sfiorava la faccia. Marcello a destra, Gosto a sinistra, e zitti. Fabio entra in camera, guarda fuori, nessuno. Accosta la finestra. Si sveste, va sul lato destro del letto, s'accuccia, tira fuori il cantero e fa la pipì. Lo rinfila sotto il letto vicino al naso di Marcello, e mentre Gosto trattiene a stento le risa, un puzzo di urina calda si spande sul pavimento. Fabio entra a letto. Sentono biasciare qualcosa, forse una preghiera, e la luce si spenge. Sotto il letto appesantito, la rete quasi sfrega la faccia dei due. Lentamente Marcello prende un lato del lenzuolo, e con uno strattone lo tira verso il basso. Immediatamente s'accende la luce. Fabio si solleva col busto, perplesso:
"Questo lenzuolo non ci vuole stare", borbotta. Si accomoda il letto e rispenge. Marcello ora spinge l'orinale e il tappeto, producendo un fruscio. Come un fulmine si riaccende la luce. Fabio si sporge sulla destra, vede l'orinale fuori posto e
"te chi ti ci ha messo costì", mormora. Lo rimette sotto il letto, e rispenge per la terza volta. Ma ora la mente elabora e ripensa alle paure, ai fantasmi, a quelle presenze misteriose. E' inquieto, e si rigira, non dorme. Il gioco è quasi fatto. Di nuovo Marcello sposta il vaso da notte con breve rumore, ma ben inteso da Fabio che fulmineo riaccende l'interruttore. Si riaffaccia dal letto e vede il vaso dove non dovrebbe essere. Si sente nel silenzio il suo respiro affannato, ma ha il coraggio di osservare attentamente per capire cosa sta succedendo, ed è allora che la scarna mano di Marcello esce lentamente da sotto il letto. Un urlo bestiale
"ahhhhhhhh", ruppe la quiete notturna. Fabio rimane sul letto, impietrito, occhi sgranati, stringe i lenzuoli con entrambi i pugni e trema vistosamente.
"Siamo noi", avvertono i due, mentre escono un po’ imbarazzati di sotto il letto. Arriva anche la mamma Alda.
"Oh voi che ci fate?". Fabio è rinfrancato:
"Ma come avete fatto a montare quassù. Ma allora sono in pericolo se si può salire". Fuori gli altri aspettavano per gustarsi i particolari.
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